21 gennaio 2013

IL RUOLO DEL GIOCO NELLA CRESCITA DEL BAMBINO




IL RUOLO DEL GIOCO NELLA CRESCITA DEL BAMBINO  

In genere si pensa che il gioco sia un’attività futile e superflua, un “passatempo”. Tanto che si suol dire “È soltanto un gioco” per minimizzare un’esperienza, per negare che sia rilevante.
In realtà non vi è nulla di più serio del gioco. Soprattutto per i bambini, e basta osservarli per comprendere quanto impegno ci mettano nel risolvere i mille piccoli e grandi problemi che il gioco comporta.

Il bambino sano che cresce bene, quando non dorme, gioca. Per lui giocare significa vivere. Ogni occasione è buona, ogni oggetto si presta, anzi costituisce una vera e propria provocazione a giocare.
È un equivoco pensare che per giocare ci vogliano i giocattoli. Anzi, se sono troppo sofisticati, possono essere d’intralcio. Molti bambini non ne hanno mai visto uno eppure non per questo rinunciano a giocare. Più importante delle cose, degli oggetti specifici, è la situazione che si deve creare perché il bambino si abbandoni al piacere del gioco. Solo quando si sente sicuro il piccolo si lascia andare alla conoscenza delle cose e all’esplorazione del mondo circostante. Un mondo all’inizio piccolo piccolo come la culla, poi via via sempre più vasto e articolato.
L’ESPLORAZIONE DEL MONDO
Nei primi mesi il suo piacere nasce dai messaggi gradevoli che gli invia il corpo che guarda, tocca, ascolta, gusta. Anche le proprie membra, a quell’età, sono cose tra le cose, per cui il neonato può trastullarsi con i suoi piedini come se fossero giocattoli. Tutto può servire a divertirlo, purché non sia pericoloso per la sua incolumità. Per conoscere, il neonato usa soprattutto la bocca che, attraverso il cibo, diviene ben presto capace di distinguere il buono dal cattivo.
Man mano che il cerchio dell’esplorazione si allarga, cresce contemporaneamente anche la sua capacità di pensare dato che, nel primo anno di vita, l’intelligenza è prevalentemente motoria. E quando, per esempio, butta via il cucchiaio e lo rivuole per scagliarlo ancora una volta lontano, non sta solo indispettendoci, ma cercando di dimostrare a se stesso che può agire attivamente modificando la realtà.
Frapporre troppi ostacoli alla sua esplorazione, tempestarlo di divieti e di interdizioni, alla fine inibisce la curiosità e l’attività. Spesso il bambino troppo buono è un bambino passivizzato che, per evitare guai, non desidera nulla e non chiede niente. Anche fare un dramma per il disordine della cameretta è inutile perché, quando gioca, il bambino vive in un mondo immaginario, in un castello incantato, in cui si sente libero di fare e disfare e non ha tempo per riordinare. Fatelo voi, raccogliendo tutto in un comodo cestone.
Vi sono mamme che proibiscono i giochi con la terra, l’acqua e l’erba per paura che il bambino si sporchi, si bagni, si ammali. Ma, a contatto con la natura, il piccolo si calma e si rinvigorisce e basta un grembiulone di plastica e un paio di buone calosce per metterlo al riparo da eventuali malanni.
Nel gioco infantile l’adulto può essere un complice o uno spettatore. Tra i primi giochi condivisi vi è quello del cucù. Ci si nasconde e poi all’improvviso si riappare, magari sbucando da un semplice foglio di carta. Successivamente lo sparire-ricomparire diventa motorio e il bambino ci cercherà là dove ha visto che ci siamo nascosti. L’importante è non forzare i tempi, seguire i suoi ritmi senza sovraccaricarlo di troppe emozioni. A un certo punto sarà lui stesso a sfidarci e allora dovremo far finta di cercarlo, pur sapendo bene dov’è. Questo gioco richiede da parte nostra, delicatezza e tenerezza perché, con questi rituali, il piccolo sta cercando di dominare la paura del nulla, il terrore di essere abbandonato o di non esserci più. L’entusiasmo con cui ogni volta celebra la riscoperta reciproca rivela che sta acquisendo il senso della continuità, di se stesso e del mondo. Per noi è scontato, ma per i più piccoli rappresenta invece una conquista.
I GIOCHI DI IMITAZIONE
Molto importanti sono, poi, i giochi d’imitazione, dove il bambino ripete mimeticamente i gesti e le azioni che vede fare dagli altri. Dapprima i suoi modelli sono gli adulti, poi man mano subentrano i coetanei. Così, mentre apprende un ”saper fare”, acquisisce anche un ”saper vivere”, la qualità affettiva, la disposizione emotiva, la concentrazione intellettuale con cui si porta a termine un compito, grande o piccolo che sia. Il modello dei bambini è l’artigiano, che ama il proprio lavoro e vi s’impegna per il piacere di compierlo bene, indipendentemente dal guadagno e dal riconoscimento sociale.
La mamma che svolge le faccende di casa depressa o serena, il papà che guida la macchina furibondo o tranquillo, anche senza volerlo, trasmettono al figlio modalità negative o positive di affrontare la realtà, uno stile di vita che lui ripeterà prima nel gioco e poi nella realtà.
Mentre inizialmente il bambino chiede la partecipazione attiva dell’adulto, successivamente gli basta sentirsi presenziato, avvertire accanto a sé la vicinanza di una figura buona. Quando infine si dimostra capace di stare da solo, magari sveglio nel lettino senza chiamare, significa che ha assimilato le persone care ed è ora in grado di evocarle e di dialogare con loro.
Lo vedremo allora intento a fantasticare, preso da un mondo altro dove il fare è meno importante dell’immaginare e il teatro interiore può diventare lo spazio creativo della sua libertà. L’importante è che la fantasia arricchisca la realtà senza tuttavia sostituirla. Quando questo accade anche i giocattoli si animano e, chiamati per nome, diventano folletti del suo bosco fantastico. Spesso, tra tanti, ne viene prescelto uno che nei momenti di stanchezza o di crisi diventa una vera e propria consolazione, un talismano.
Di solito è un soffice peluche, ma può essere anche un pigiamino, una sciarpetta, una copertina (la famosa coperta di Linus!), purché sia morbido, liscio e profumi di sé. Il bambino se lo stringe al petto, oppure lo avvicina al viso, lo liscia con le dita, lo attorciglia e lo stringe. Guai se, quando lo cerca, non lo trova! Eppure, a un certo punto, ciò che sembrava unico, insostituibile, perde d’interesse e viene abbandonato per sempre. La sua funzione è finita. È servito per colmare il vuoto lasciato dal corpo della mamma che si allontana, per scaldare il freddo della solitudine e per dissolvere l’ansia dell’abbandono. Ormai lo spazio intermedio tra sé e l’altro può essere riempito di pensieri e di parole, garantiti dalla presenza interna di figure buone, di oggetti d’amore sicuri.
I GIOCHI CON GLI AMICI
Verso i tre anni, però, il gioco solitario non basta più e il bambino cerca spontaneamente i propri coetanei. Si avvicina allora agli ”amici” pieno di fiducia, sicuro di essere accolto, amato e capito come sinora hanno fatto gli adulti, ma non sarà così perché tutti i ”bimbi”sono egocentrici come lui, incapaci di mettersi dal punto di vista degli altri, gelosi delle proprie cose e avidi di quelle altrui, secondo il motto “quello che è mio è mio, quello che è tuo è mio”. Certo, gli oggetti d’amore, la bambola o l’orsacchiotto, sono incedibili ma tutto il resto andrebbe scambiato e condiviso. Per questo servono gli spazi pubblici: il cortile condominiale, il parco giochi, le ludoteche.
Tuttavia, anche in queste gioiose circostanze, le frustrazioni sono inevitabili perché c’è sempre il bambino più grande, più forte, più prepotente che s’impone sugli altri facendoli sentire dolorosamente piccoli, in casi simili la prima tentazione degli adulti è di intervenire per rimettere le cose a posto, ma è meglio farlo il meno possibile: se abbiamo pazienza e sappiamo attendere, vedremo che a poco a poco i bambini si accordano tra di loro e si dispongono secondo una gerarchia che sanno essere provvisoria perché, durante l’età evolutiva, tutto è mobile e mutevole.
Nel frattempo imparano che, se si vuole giocare insieme, è necessario darsi dei limiti, rispettare delle regole. Quanto a noi adulti, dobbiamo ammettere che gli amici ognuno se li sceglie da sé e che difficilmente nostro figlio condividerà le nostre preferenze. In particolare non darà per scontato che i figli dei nostri amici siano, solo per questo, suoi amici. Peccato, sarebbe così comodo! Ma consoliamoci pensando che anche questo è un modo per rendersi autonomi, per crescere.

 



                                                                          

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