Le donne di Ciudad Juárez
Vittime, madri e sicarie
La guerra tra narcotrafficanti e gli omicidi sessuali
non hanno risparmiato nessuna famiglia
CIUDAD
JUÁREZ (Messico) — Al cimitero di San Rafael, a pochi chilometri da
Ciudad Juárez (città di confine con gli Stati Uniti, un milione e 300
mila abitanti) sono sepolti i cadaveri di 36 donne — diciotto delle
quali mai identificate— e 19 bambini, tutti vittime della guerra del
narcotraffico. Tra loro una studentessa di appena 16 anni, Rubi, uccisa a
febbraio da un sicario degli Zetas, il gruppo più aggressivo dei
Signori della droga: lo stesso che avrebbe poi provveduto ad eliminare,
dietro ordine del capobanda Hariberto Lazcano detto El verdugo,
il boia, la madre della ragazza, abbattuta a raffiche di mitra mentre
denunciava l’impunità dei banditi davanti al municipio di Chihuahua,
capoluogo della regione. Marzialmente definite chicas Kalashnikov
per l’arnese che portano sempre in spalla quando scendono sul sentiero
di guerra contro i sei gruppi armati dei narcotrafficanti, le amazzoni
messicane se le devono pure vedere con gli schieramenti interni: quale
il Cartello del Golfo, in perenne rivalità (talvolta cruenta) con la
compagine narco-militare degli Zetas. Per Hillary Clinton, i narcos sono
«un’insurrezione criminale», una bestiaccia nata o cresciuta grazie
anche al massiccio contributo degli Usa. Come dimostra il fatto che ogni
anno gli americani mandano in fumo 65 miliardi di dollari per
alimentare il mercato degli stupefacenti, marijuana, coca, eroina,
metanfetamine, provocando stordimenti e deliri di massa. Solo a Ciudad
Juárez vivono (o sopravvivono) 80 mila cocainomani.In questa insurrezione la signora Yaretzi, 27 anni, sposata con due figli, alla vita domestica dopo un intermezzo alla Scuola militare ha preferito quella di guerrigliera, di chica Kalashnikov.
In un’intervista in carcere sfodera tutto l’odio di cui era capace,
«perché alla scuola ti insegnano a non voler bene a nessuno, quando ne
esci hai il cuore di pietra. Del resto in Messico, morte è la parola
favorita». Schietta com’è, Yaretzi non nasconde un breve trascorso «come
puttana», ma è adamantina quando parla del suo impegno
politico-militare: «Signori non si nasce. Si diventa» scandisce con
fermezza. «Però mentre gli uomini lo fanno perché si divertono ad
ammazzare noi donne lo facciamo per il denaro. O almeno questo è il caso
mio. Dire che lo si fa per amore o per un ideale è una cazzata». Entrò
come recluta a 20 anni e il suo primo incarico, come per tutti i novizi,
è di lavare i pavimenti sporchi di vomito o sangue: quindi assumerà il
ruolo di Condor (stanare il nemico nei suoi nascondigli), poi quello di
Lince (che arresta e tortura) e infine «mi misi ad uccidere » diventando
sicario a tempo pieno insieme a ragazze così belle e «con unghie grandi
e affilate come coltelli che ispiravano pensieri inverecondi ».
Analizzando la situazione socio-politica di Ciudad Juárez,
Leobardo Alvarado, uomo di cultura che non ama la definizione di
intellettuale, ricorda che furono proprio le donne ad alzare la voce nel
’93/’94 quando la parola «femminicidio» non era stata ancora coniata.
«Questa—dice—era una città di almeno 10 mila orfani di guerra e di
giovani che non riconoscevano più i valori tradizionali della famiglia o
della Chiesa. Il ragazzino che finiva in carcere, vi trovava la
migliore università possibile del crimine e quando usciva veniva subito
arruolato dalla bande». Sempre più frequenti i delitti contro le donne:
25 le vittime nel 2007, 164 nel 2008 e 50 casi di
quest’anno. Bersagli prediletti degli assassini chi lavora in
organizzazioni per i diritti umani o chi, seguendo il messaggio
evangelico, soccorre vecchi, malati e gente ridotta in condizioni di
estrema povertà. Verdetto o punizioni non cambiano. La Redim (organismo
che si occupa dei diritti dell’infanzia) fa un bilancio agghiacciante
nel suo più recente rapporto, da cui emerge che 1300 minorenni sono
morti ammazzati negli ultimi quattro anni, mentre assomma a 27 mila la
folla dei tossicodipendenti. Non mancano poi episodi di contorno,
macabri, raccapriccianti: come quando i condannati a morte erano
costretti, prima dell’esecuzione, a coprirsi il volto con una maschera
raffigurante il muso osceno di un maiale. Lontano anni luce il Messico
glorioso, cupo e dolente di Pancho Villa, Madero, Zapata: anche se, per
quelli dalla mia generazione, l’unico vero volto di quest’ultimo rimane
quello ombroso di Marlon Brando
Molti villaggi nella zona sono listati a lutto. Bussiamo alla
casupola di Olga Alanis, dove sullo scaffale del tinello, accanto al
televisore, c’è la foto di sua figlia Monica, che avrebbe oggi 20 anni.
«Uscì di casa giovedì 26 marzo di due anni fa—racconta la madre senza
mai staccare gli occhi dal ritratto—e non l’abbiamo più vista. Quel
giorno mi telefonò per dirmi che sarebbe rientrata sul tardi e non
stessi in pensiero. A volte, all’ora di cena, metto ancora quattro
piatti in tavola, come se la porta dovesse spalancarsi da un momento
all’altro. Era una ragazza inquieta ma studiosa, le volevano tutti bene.
Come diciamo noi da queste parti, era povera e bella». Il marito, che
le siede accanto, ogni tanto la stringe forte alle spalle, come per
assecondarla nella speranza che sia ancor viva la sua bambina. Ma lui
non crede alle fate e nel suoi occhi c’è il riverbero della spaventosa
certezza che ha nel cuore, quando ci accompagna a vedere la stanzetta
della figlia, al primo piano. «L’abbiamo lasciata tale e quale il giorno
che è sparita!», sussurra. Il letto sfatto, i cuscini addossati alla
parete, i tre orsacchiotti che «le tenevano compagnia la notte». E
aggiunge: «Sento ancora la voce delle amichette che al mattino la
chiamavano dalla strada; dai, Moni, svegliati dormigliona ».
Sono circa 10 mila i desaparecidos in Messico, di cui la maggior
parte trova rifugio nel Texas e in California transitando
clandestinamente a El Paso, la frontiera con gli Stati Uniti. Questo era
anche l’obiettivo di Israel Arzate, 26 anni, scomparso da casa a fine
gennaio del 2012, ma non ce l’ha fatta. Dopo mesi di ricerche, la madre
riuscì a trovarlo in una caserma messicana dov’era detenuto sotto
l’accusa (mai provata) di aver preso parte al massacro di Villas de
Salvarcar (15 morti). «Quando l’ho visto— ha raccontato la donna— mi
s’è spezzato il cuore, l’avevano torturato brutalmente; i piedi
bruciati, i testicoli sanguinanti, la testa avvolta in una borsa di
plastica, sul petto i segni dalle sigarette spente dai soldati per
tenerlo sveglio. Ma più di tutto lo feriva la battutaccia velenosa dei
carcerieri quando gli dicevano: anche la tua mamma è in prigione,
ragazzo mio. Ma stai tranquillo, non le manca niente. Noi ce la facciamo
a turno giorno e notte».
Le prime donne a pronunciare la parola femminicidio, ricorda la
signora Imelda Marufo, un’autorità nel mondo accademico, furono due
docenti dell’Università, la professoressa Diana Russel e la sua collega
Marcela Lagarre: ma già da oltre 20 anni la catena dagli omicidi stava
sfoltendo la popolazione femminile dì Ciudad Juárez. All’origine della
mattanza, secondo gli esperti, un’incontenibile misoginia diffusa in
tutti i ceti sociali: le prime vittime, maggiorate fisiche con fiumi di
capelli neri, di bassa estrazione e disperatamente povere. Ma i delitti
si consumavano anche tra le pareti domestiche. Ed è più che amara la
conclusione di Imelda quando dice: «Le autorità non intervengono perché
la cosa non le interessa o, peggio ancora, perché sono personalmente
coinvolte in quei crimini». Chi faccia un salto alla fossa comune del
Panteón San Rafael, una trentina di chilometri fuori città, non potrà
sottrarsi a un profondo senso di sgomento, amarezza e perfino di paura.
Qui sono sepolti i morti che nessuno reclama, anche perché nessuno vuole
esporsi alla vendetta dei sicari responsabili della strage. Qualche
croce di marmo o di legno spunta qui e là sul tappeto di terra arida e
rossiccia, ma su poche, pochissime, trovi inciso un nome con le date di
nascita e di morte. Quasi per scusarsi di tanta negligenza, la nostra
guida ci ricorda un detto assai comune da queste parti: «Nella Valle di
Juárez anche il vento ha paura».
Nel camposanto di Guadalupe riposano quattro membri
della stessa famiglia, quella degli Amaya: Omar, sindaco della città,
ucciso nel 2006 a 33 anni, suo padre Apolonio, lui pure primo cittadino,
ucciso nel 2007 cinquantanovenne, Maria ed Aglae, madre e sorella di
Omar, di 57 e 29 anni, eliminate nel 2008 da mano ignota. «Ma tutti
sanno chi c’è dietro quella mano», commenta Ignacio Montea, il becchino,
che aggiunge, indicando un cumulo di terra fresco dove è stata appena
interrata una bara: «Come tutti, noi sappiamo chi ha fatto fuori i
quattro ragazzi che ho appena sepolto la settimana scorsa. Scriva pure
che qui il lavoro non manca ». A Ciudad Juárez e lungo la frontiera i
fucili non tacciono mai e si deve soprattutto alla frenetica attività
dei due gruppi meglio organizzati e costantemente riforniti di materiale
bellico (El Cártel del Pacifico e gli Zetas) se nel territorio del
Messico, avverte lo scrittore Charles Bowden, si stanno espandendo i killing fields di
cambogiana memoria. Sorprende che le autorità militari messicane
avessero inizialmente sottovalutato il fenomeno degli Zetas, che, per
loro, «non esistevano ». Anche il loro capo, Heriberto Lazoano, dato più
volte per morto negli ultimi due anni, è vivo e vegeto e ha trovato un
rifugio sicuro a Potosi.
L’ultima nostra passeggiata (o pellegrinaggio) in Messico è verso
il tempio della Santa Muerte, una piccola grotta scavata nella roccia e
a malapena illuminata dalle fiammelle delle candele. Hai netta
l’impressione che il tuo cammino terreno stia per finire qui. Quasi
nessuno parla. C’è solo quel tenue bisbiglio che senti in chiesa durante
le funzioni, nei momenti culminanti della cerimonia liturgica. La
caverna è quasi tutta occupata da un cupo presepe messicano, con
statuette della Madonna, che però indossa indumenti funerei e tiene la
falce; in una è più bianca dei ceri, un’altra veste una luminosa tunica
gialla, altre ancora sono fasciate da colori gentili come il celeste, il
verde primavera, il rosa dell’alba. La padrona di casa, signora Yolanda
Salazar, ricorda che possono accedere al tempio tutti coloro che
credono in Dio, siano essi cristiani, cattolici o d’altra fede. La porta
(che non c’è) è però severamente sbarrata per chi abbia un qualche
contatto col crimine organizzato. La signora Yolanda raccomanda ai
devoti di non mancare alla Messa solenne che si celebra ogni domenica
alla Santa Muerte, alle dodici in punto, a pregare per il «povero
Messico » che — diceva il dittatore Porfirio Diaz — ha la sfortuna di
essere «così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti».
Nessun commento:
Posta un commento