Diversità e diritti, un’esperienza nella scuola italiana
L'accettazione e la convivenza con le
diversità dovrebbero essere prioritari concetti educativi. Questo in
astratto, ma quando la diversità ci tocca da vicino, la difesa dei
diritti dei bambini diventa spesso un percorso di sofferenza ed una
quotidiana battaglia per ottenere quel minimo, spesso elargito come
concessione, raramente riconosciuto come diritto. E' quanto successo a
me quando, alla fine della seconda elementare di M., mi sono sentita
dire “suo figlio è dislessico”. E, incredibilmente, mi sono sentita
sollevata. Finalmente quel disagio aveva un nome, non era una malattia
(anche se sarebbe durata per sempre) e poteva essere compensata con
opportuni strumenti riabilitativi ed un percorso educativo
personalizzato. Ripensandoci avrò anch'io, certamente in passato, usato
questo termine in senso dispregiativo, come fanno i ragazzi su facebook o
le persone che cercano di giustificare un improvviso impasse
linguistico. Oggi, per così dire educata dagli educatori di mio figlio,
preferisco parlare di "disturbo specifico di apprendimento", molto
"politically correct" che ha però l'inconveniente di non farsi capire
dagli altri.
Mi hanno insegnato che per
comprendere un problema bisogna prima definirlo. Dislessia dal punto di
vista etimologico deriva dal greco e significa difficoltà nella lettura,
ma può comprendere anche altri disturbi delle abilità scolastiche,
quali disortografia (errori involontari, ripetuti anche dopo la
correzione dell'insegnante), disgrafia (testi illeggibili anche agli
stessi bambini, con inversioni lettere p/d, v/f p/q, m/n) e talvolta
discalculia (in generale difficoltà d'apprendimento delle tabelline,
errori nell'allineamento, inversioni di numero 21/12). In pratica è una
difficoltà che riguarda bambini che non hanno deficit intellettivi (Q.I.
nella norma o superiore), problemi psicologici, sociali o sensoriali
(ci vedono bene, ma è errata a livello neurobiologico la decodifica
della parola) ed interferisce notevolmente con i primi momenti
dell’apprendimento.
Pertanto, se non riconosciuto ed
aiutato, un bambino dislessico può anche imparare a leggere e scrivere
ma riesce a fare queste cose, che per le persone normali sono
automatiche, con un grande sforzo, stancandosi molto, commettendo errori
e "rimanendo indietro perché più lento". In poche parole, non impara
alla stessa velocità degli altri. Dunque dovrebbe essere un problema non
secondario per la scuola, se è vero che la dislessia interessa circa il
4% della popolazione scolastica (almeno 1 per classe). Dove sono tutti
questi bambini invisibili? La dislessia non nasce da un disturbo
psicologico, i bambini sono i primi a vivere la propria difficoltà, nel
fare cose normali per i loro compagni di classe, senza riuscire a
darsene una spiegazione. Il disagio psicologico è dunque una conseguenza
della dislessia, che ha ripercussioni sull'autostima degli alunni e che
può tradursi in disturbi di comportamento (irrequietezza, disinteresse,
chiusura). Ecco, potrei dire che le definizioni sono utili, ma a
partire dall'effetto del problema perché è quest’ultimo aspetto la prima
cosa che vediamo, prima ancora di capire come spesso succede ai
genitori.
La mia esperienza da genitore è
cominciata in prima elementare, quando improvvisamente quel bambino,
senza alcun problema nella scuola materna e prima di allora allegro,
vivace, creativo, usciva da scuola sempre più agitato ed irritabile,
quaderni e diario pieni di note, compiti da rifare. Trepidante, come
tutti i genitori dei "primini" all'uscita da scuola, mi sono sentita
accogliere da una delle maestre con "suo figlio è tremendo, impossibile
che non sia stato segnalato". Ma cosa succedeva dunque in classe? Mio
figlio si distraeva spesso, eseguiva parzialmente le consegne,
infastidiva i compagni, quando era calmo si metteva a giocare sotto il
banco con il materiale scolastico e si alzava in continuazione per
temperare la matita. In poche parole, disturbava il regolare svolgimento
della lezione. Non solo, diceva bugie perché avendo scritto tutti i
numeri al contrario sosteneva che era stata la maestra a scriverli così
alla lavagna, e la maestra lo aveva smascherato facendogli mostrare
dagli altri bambini tutti i quaderni con i numeri correttamente
ricopiati.
Per i comportamenti da
disturbatore era punito con il cosiddetto filo della pazienza, un
nastrino che veniva tagliato dalle maestre da un gomitolo appeso vicino
alla lavagna ed annodato al polso del bambino disturbatore. Stava a
significare l'esaurimento della pazienza delle maestre e avrebbe dovuto
servire, nelle loro intenzioni, a comunicare ai genitori la punizione
poiché non poteva essere tolto neanche a casa e, se ciò avveniva, veniva
riannodato il giorno dopo dalle stesse insegnanti. Ovviamente il
contrassegno era ritenuto democratico. Questo perché tutti i bambini
erano stati informati delle conseguenze dei loro comportamenti negativi e
perché la punizione, in effetti, non riguardava solo M. ma un gruppetto
di bambini agitati dal primo approccio con l'esperienza scolastica.
Il tutto, come logica vuole che sia, si ripercuoteva in famiglia. Per cui a casa iniziò un periodo di reciproche accuse sui metodi educativi, su come dovessimo essergli d'aiuto per lo svolgimento dei compiti (entrambi di formazione universitaria). Inoltre fummo portati ad un controllo ossessivo di quaderni e diario, ed a rinforzare in negativo le punizioni. Insomma, per dirla con una sola parola si viveva in un "incubo". Nel frattempo da una delle maestre, che svolgeva anche il compito d'insegnante di religione, ci veniva comunicato per iscritto che M. era l'unico bambino della sua classe che non si avvaleva dell'Insegnamento della Religione Cattolica. "Se intendete cambiare la scelta" - ci scrisse - "occorre rapidamente comprare il libro di testo”. Prontamente, per non far ricadere sul bambino l'affermazione dei nostri principi e far pesare su di lui un ulteriore diversità, decidemmo di cambiarla la scelta, rinunciando così all'insegnamento di materie alternative che avevamo fatto al momento dell’iscrizione.
Il tutto, come logica vuole che sia, si ripercuoteva in famiglia. Per cui a casa iniziò un periodo di reciproche accuse sui metodi educativi, su come dovessimo essergli d'aiuto per lo svolgimento dei compiti (entrambi di formazione universitaria). Inoltre fummo portati ad un controllo ossessivo di quaderni e diario, ed a rinforzare in negativo le punizioni. Insomma, per dirla con una sola parola si viveva in un "incubo". Nel frattempo da una delle maestre, che svolgeva anche il compito d'insegnante di religione, ci veniva comunicato per iscritto che M. era l'unico bambino della sua classe che non si avvaleva dell'Insegnamento della Religione Cattolica. "Se intendete cambiare la scelta" - ci scrisse - "occorre rapidamente comprare il libro di testo”. Prontamente, per non far ricadere sul bambino l'affermazione dei nostri principi e far pesare su di lui un ulteriore diversità, decidemmo di cambiarla la scelta, rinunciando così all'insegnamento di materie alternative che avevamo fatto al momento dell’iscrizione.
Ai primi colloqui di classe,
dopo tre mesi dall'inizio della scuola, dopo un colloquio tra le nuove
maestre e l'insegnante della materna (da me sollecitato), la situazione
non era affatto cambiata, dal punto di vista del comportamento in classe
di mio figlio, ma sicuramente era cambiato il mio atteggiamento.
Certamente difendevo il modello educativo della nostra famiglia, anche
se un po' debolmente con frasi del tipo: "siamo bravi genitori, non
capisco perché M. si comporti così", ma nello stesso tempo iniziavano a
sorgere in me i primi dubbi. L'occasione venne da un confronto con mio
figlio in cui mi accusava di averlo mandato a scuola prima del tempo,
perché lui aveva capito che avrebbe soltanto cambiato scuola materna non
vita. Ed il ritrovarsi in quella scuola, già preoccupato al momento di
entrare perché le scale sembravano quelle di un Tribunale, lo aveva
spiazzato e soltanto quando aveva visto altri bambini si era sentito un
po' tranquillizzato.
Ed a questo punto, con l’unico
obiettivo di pensare al bene di mio figlio, mi sono data da fare
cercando informazioni in "rete", parlando con amici e conoscenti,
insegnanti e psicologi di professione, fino ad approdare, senza saperlo,
ad un centro psicopedagogico specializzato nei disturbi
dell'apprendimento. Mio figlio è stato precocemente valutato ed aiutato,
anche se la diagnosi: "affetto da dislessia evolutiva" (ma non avevano
detto che non era una malattia?) è stata fatta con certezza solo alla
fine della seconda elementare. Le insegnanti hanno incontrato la
psico-pedagogista e pur con qualche resistenza alle prime spiegazioni
(una delle due avrebbe detto "comunque per me è soltanto maleducato!")
hanno iniziato a considerare diversamente il percorso didattico del
bambino. In particolare maggiore sensibilità è stata dimostrata proprio
dall'insegnante di religione, che abbiamo scoperto essere stata, in
gioventù, insegnante delle famigerate scuole differenziali, dove
probabilmente finivano anche bambini dislessici quando ancora non c'era
conoscenza del problema.
La definizione del suo disturbo
ha comportato per M. una maggiore tranquillità psicologica ma anche un
ulteriore impegno, comunque positivo per i risultati, dovendo seguire un
percorso di riabilitazione settimanale presso il centro, con esercizi
al computer da svolgere a casa. Per noi è stato un impegno economico,
dato che si parla sempre di strutture private, che abbiamo sostenuto
fino alla prima media. Ora M., sempre per la statistica, è un
"dislessico compensato". Le stesse maestre delle elementari, che spero
abbiano riflettuto su quest'esperienza e l'abbiano fatta loro, lo hanno
aiutato anche nell'inserimento alla scuola media, dedicandogli tempo non
conteggiato nell'orario di lavoro. M. è stato dunque fortunato, ma cosa
succede a quei bambini invisibili della statistica (il 4% della
popolazione scolastica)? In tutti questi anni di conferenze, incontri
tra genitori, partecipazione a seminari per insegnanti (a volte
purtroppo scarsamente frequentati, se non validi come punteggio per la
formazione), dialoghi con amici e genitori, che sentivo più sensibili al
tema delle diversità, ho scoperto che questi bambini invisibili
esistono veramente ma, spesso e volentieri, non sono altrettanto
fortunati.
Sono quelli scoperti tardivamente e dopo ripetuti insuccessi scolastici, quando è ormai troppo tardi per un percorso riabilitativo, utile solo se effettuato nei primi momenti d'apprendimento della letto-scrittura. Sono quei bambini che non hanno risorse economiche per usufruire di strutture private ed il pubblico, nei centri minori, si occupa soltanto di certificazione dell'handicap, concessa per giunta sempre più raramente. E i dislessici non necessitano d'insegnante di sostegno, a meno che il loro problema non sia associato ad handicap d'altro tipo. Quando il disturbo si manifesta in una situazione familiare disagiata i dislessici, quasi mai riconosciuti come tali, finiscono per essere segnalati ai servizi sociali, dalla stessa scuola che frequentano, o, al limite, il loro problema viene inserito nell'ambito della "psicologia comportamentale". Esistono persino delle statistiche che associano la dislessia a comportamenti socialmente devianti. Infine, tra questi bambini invisibili, ci sono purtroppo anche figli di insegnanti che rifiutano la diagnosi o l'aiuto esterno (ne ho conosciuti), perché pensano di fare da soli riconducendo il problema alla necessità di un maggiore impegno del bambino e della famiglia.
Sono quelli scoperti tardivamente e dopo ripetuti insuccessi scolastici, quando è ormai troppo tardi per un percorso riabilitativo, utile solo se effettuato nei primi momenti d'apprendimento della letto-scrittura. Sono quei bambini che non hanno risorse economiche per usufruire di strutture private ed il pubblico, nei centri minori, si occupa soltanto di certificazione dell'handicap, concessa per giunta sempre più raramente. E i dislessici non necessitano d'insegnante di sostegno, a meno che il loro problema non sia associato ad handicap d'altro tipo. Quando il disturbo si manifesta in una situazione familiare disagiata i dislessici, quasi mai riconosciuti come tali, finiscono per essere segnalati ai servizi sociali, dalla stessa scuola che frequentano, o, al limite, il loro problema viene inserito nell'ambito della "psicologia comportamentale". Esistono persino delle statistiche che associano la dislessia a comportamenti socialmente devianti. Infine, tra questi bambini invisibili, ci sono purtroppo anche figli di insegnanti che rifiutano la diagnosi o l'aiuto esterno (ne ho conosciuti), perché pensano di fare da soli riconducendo il problema alla necessità di un maggiore impegno del bambino e della famiglia.
E’ vero che la scuola si
giustifica con il rifiuto di molti genitori che, quando vengono invitati
ad approfondire un disagio, preferiscono cambiare classe o scuola al
proprio figlio. Gli insegnanti lamentano poi la crisi del riconoscimento
del loro ruolo nella società, la scarsità delle risorse a loro
disposizione (il computer è fondamentale per garantire l’uguaglianza dei
dislessici nell'apprendimento), i tagli del personale ed i continui
cambiamenti cui sono costretti dalle ultime riforme. Eppure la scuola si
trincera dietro a sigle altisonanti (PEP – Piano Educativo
Personalizzato, Equipe Psicopedagogica) ed alla conoscenza delle
circolari ministeriali sugli strumenti compensativi e dispensativi per
dislessici, che però spesso sono parole vuote, la cui applicazione, pur
minima, si basa sulla sensibilità del Preside e di qualche insegnante.
Una concessione che comporta comunque una costante richiesta ed
attenzione da parte del genitore. E' triste che finiscano per essere
proprio i bambini, i principali soggetti da tutelare, a fare le spese
delle difficoltà della scuola italiana.
E' un peccato che il
riconoscimento di un proprio diritto dipenda frequentemente soltanto
dalla componente umana. Come è successo a M. quest’anno, in seconda
media, quando il nuovo professore d'italiano, preventivamente
contattato, ha esordito citando Valeriano Magni, un precursore della
moderna pedagogia, il quale sosteneva che per insegnare "bisogna amare i
ragazzi". Quest'amore ha comportato che per la prima volta il computer
portatile di M. è finalmente entrato in classe, almeno nei temi
d'italiano, mentre sia alle elementari che in prima media era
sconsigliato dagli insegnanti stessi. Si faceva, mi veniva detto, per
non marcare la diversità di M., anche se spesso ho avuto l’impressione
che il "pc" comportasse più problemi agli insegnanti ed alla scuola,
tutta basata sulla certificazione della produzione cartacea e sul
mantenimento dell'ordine in classe, perché "anche gli altri bambini" -
cosiddetti normali - "lo avrebbero voluto usare". La componente umana ha
determinato che quest'anno M. frequenti senza traumi i corsi di
recupero pomeridiani (gratuiti, finalmente), ai quali non era stato
indirizzato l'anno precedente, sempre per non rimarcare la sua
diversità, tanto era già seguito fuori della scuola. La componente umana
ha determinato il ritorno della "lavagna interattiva" nella classe, non
disponibile inizialmente quest'anno perché non ve n'erano a sufficienza
per tutti i bambini.
E la stessa componente umana è
determinante, stavolta in negativo, quando in classe viene richiesto al
ragazzino, nonostante la sua certificazione, di ricopiare a mano
ricerche effettuate al computer o quando gli vengono assegnati e
valutati una gran quantità di compiti, e questo anche il giorno
successivo al corso di recupero pomeridiano, perché avrebbe dovuto
avvantaggiarsi nei giorni precedenti. Comunque di un insegnamento non
tradizionale, con schemi, mappe concettuali, uso di strumenti
informatici, audiovisivi, apprendimento dalle esperienze e dalle
attività manipolative, potrebbero avvantaggiarsi tutti i ragazzi. E'
quanto risulta in poche esperienze nella scuola pubblica, prevalenti al
nord della nazione italica, in particolare nel modello emiliano, o in
Scandinavia, mentre in Italia, nel privato, già sappiamo che il problema
non si pone (le famose scuole steineriane, ad esempio).
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