17 marzo 2013

CON CERTE STORIE MEDIATICHE FATE ATTENZIONE

STORIE MEDIATICHE FATE ATTENZIONE  

Nel processo mediatico, processo inteso come elaborazione di nuovi format e programmi dedicati alla cronaca (in tutte le sue gradazioni cromatiche, dal bianco fino al noir), si è andato affermando e consolidando un nuovo modello interattivo che chiameremo: della trasparenza psichedelica. La trasparenza richiama la correttezza e la genuinità di un approccio senza infingimenti e senza opacità, una informazione senza reticenze e censure, l’idealtipo del giornalista d’assalto e del cronista senza ‘se’ e senza ‘ma’. Il termine psichedelico allude invece a una scansione filtrata attraverso effetti più o meno deformanti (allucinazioni visive, tattili, emotive…), un reticolo interpretativo capzioso e suggestivo che allarga la sfera del visibile in regioni ignote, in realtà esotiche ed aliene. Il paradigma riguarda i casi umani, soprattutto quelli irrisolti - Cold Case, delitti e persone scomparse – passati al setaccio con l’intento di approfondirne tutti i risvolti personali e criminali. I protagonisti delle storie vengono riguardati e formattati in una sorta di acquario virtuale, con diversi piani di ribaltamento, ruotati in 3D come proiezioni ortogonali, in una assonometria che ne mostri i profili più o meno obliquamente (inquadrature emotive e concettuali, angolazioni esistenziali, primi piani psico-caratteriali). Persone tagliate a fette (virtualmente) per farne la scansione, riflesse e ribaltate come si trattasse di poligoni irregolari. Protagonisti in carne ed ossa trasformati in figurine senza recto né verso, quasi astrazioni matematiche da prillare, ruotare e ritagliare; in controluce come certi francobolli in filigrana. Fumetti e cartoon che vivono la loro vita tra le strisce di qualche giornaletto o buffe animazioni da conservare in cineteca per i momenti di svago familiare. Uomini e donne concepite come personaggi posterizzati, quadretti da appendere al muro, equalizzati come istogrammi. Persone reali riguardate come reperti da etichettare, misurare e scannerizzare, insetti da sezionare e spiaccicare, merce da pesare e impacchettare.
Casi disgraziatamente e drammaticamente umani, in tutte le varietà - dolenti, appassionati, disperati... delittuosi - storie da collocare in un incerto confine tra la cronaca e la fiction, ibridi di un mondo di mezzo. Contaminazione di effetti speciali (realtà virtualmente esistenti) e soggetti veri, in carne ed ossa (ombre inconsistenti che vagano nell’etere): ciò che esce dall’inquadratura non esiste se non nel mondo iperuranio, quello che vi appare è il reticolo psichedelico di increspature, smottamenti, vortici, disturbi, mezzetinte... una gamma di effetti speciali. Programmazione visuale, il format ha le sue regole, i suoi tempi, e richiede di tradurre (platonicamente) l’idea nel prodotto finito: trasformare le persone reali in figure assemblate, purificate e interlacciate. Tutto il resto è mole, la realtà vera è un complesso amorfo e indiscernibile dal quale ritagliare una maschera, un profilo angolare, a smusso o in rilievo, quello che si è scelto in funzione del target, degli indici di ascolto e della propensione dell’audience... misurata e pesata con metodi rigorosamente quantitativi.
Il termine psichedelico (psychedelic), dalla parola greca anima, ψυχή (psiche), e manifestare, δήλος (delos), fu utilizzato da Humphry Osmond (psichiatra inglese e studioso di sostanze psicoattive) in una lettera ad Aldous Huxley (l’autore famoso del Brave New World) riferendosi  alle sostanze che "liberano il pensiero dalle sovrastrutture delle convenzioni sociali", che allargano la coscienza alterando pensieri, percezioni, sensazioni.... che mettono a nudo la psiche in controluce. Un outing non solo riguardante la sfera sessuale ma quella intima, un coming out che trasforma una persona in un involucro trasparente con interiora ben visibili. Ecografie con cuore battente in primo piano, radiografie dell’anima, macellazioni in diretta. Il paradigma è vagamente allucinogeno, anche se nessuna sostanza stupefacente è coinvolta, a dimostrazione che le endorfine possono naturalmente produrre gli effetti desiderati e scatenare nell’immaginario collettivo delle iconografie non dissimili dalle apparizioni mariane. Il modello indica il superamento dei confini corporei, il limite tangibile della privacy (parola ormai abusata e distorta) il perimetro di ciò che intimamente ci appartiene, non solo gli affetti e le emozioni, ma il tabernacolo inviolabile della nostra anima. Il protagonista acquista la trasparenza di certi pesci di vetro o di alcuni calamari di cristallo, nei quali la pelle traslucida consente di osservare nei dettagli gli organi interni in contrasto con una luce polarizzata. Gli osservatori dei mirabolanti effetti luminescenti possono variamente esercitare la loro vista stereoscopica e le loro stupefacenti capacità analitiche e psico-analitiche, criminologiche e fenomenologiche, in dissertazioni edificanti perfino con intento educativo. L’immaginario collettivo lavora come i ragni baconiani a intessere tele, complicati arabeschi e ardite filigrane scaturite da un immaginario fervido e operoso. Persone con nome e cognome trasformate in ectoplasmi che vivono negli interstizi della tv commerciale, tra uno spot sull’ultimo prodotto di bellezza e una televendita promozionale. Vissuti dolorosi, esperienze inquietanti, tragedie familiari... inseriti tra lo spot di un detersivo e l’intervista al personaggio famoso; eventi delittuosi e sanguinari nell’intermezzo di una benedizione urbi et orbi. Casi conclamati come emblema del variegato paesaggio esistenziale, trattati con il garbo e la sensibilità che un vivisezionista riserva alle sue cavie, con mille precauzioni perché i protagonisti non abbiano ad avvertire nemmeno un dolore o anche soltanto l’imbarazzo per l’autopsia in diretta.
Ma il format è anche un processo di catarsi collettiva, un procedimento di autoanalisi, un tragitto verso la luce, il cammino in direzione di Santiago, un itinerario doloroso, irto di prove difficili, ma necessarie. La via crucis di un percorso di ravvedimento, non solo del presunto colpevole, ma di tutta l’audience folgorata sulla via di Damasco, in un processo di progressiva consapevolezza, in una purificazione collettiva. Anche il più atroce dei delitti ha un insegnamento morale, ci riporta tutti ad alte considerazioni etiche e teoretiche. Sono percorsi di illuminazione, penitenziali per interposta persona. Psicodrammi talvolta conclusi con pianti liberatori, talora in pentimenti perennemente irrisolti in stimmate dolorose, in confessioni continuamente e inutilmente sollecitate. Processi in diretta con tanto di avvocato e pubblico ministero. perfino con il sacerdote per i doverosi conforti spirituali, e naturalmente il giudizio di un’audience simbolicamente rappresentata da spettatori a far da comparsa: ipostasi pallide, sconcertate e stupefatte, talvolta incazzate che invocano i fulmini della giustizia divina, riesumano punizioni desuete, richiamano in vita l’occhio per occhio dente per dente, perfino supplizi inenarrabili. Un’audience che oscilla tra il perdono e il risentimento, tra la pietà e la vendetta, ma sempre attenta e informata sugli ultimi sviluppi dell’inchiesta, al corrente di ogni più piccola variante del caso, sempre pronta a fiutare le tracce del colpevole, aggiornata sulle ultime tecniche dei laboratori del Ris. Il conduttore è la guida spirituale, lo sponsor che prende per mano il popolo mediatico, gli mostra le tappe, ne descrive le fasi, suggerisce, indica, allude, organizza... un canalizzatore instancabile, un promotore di scoop settimanali. Gli inviati sul posto hanno il piglio da esploratori dell’insondabile animo umano; un po’ ammutoliti e un po’ logorroici, tratteggiano per l’audience un primo canovaccio, indiscrezioni e notizie di prima mano, attorniati da una spontanea partecipazione di pellegrini nel percorso di disvelamento (platea, un po’ di curiosi e un po’ di testimonials dall’aria grave di circostanza). I tessitori operosi e instancabili, gli ospiti in studio, sono invece latori e testimoni degli abissi esistenziali, intrecciano e svelano l’arazzo dei misteri dell’anima umana. Da pochi indizi, talvolta solo tracce scolorite, una feconda immaginazione produttiva ricostruisce tutta la dinamica di un delitto, da un’espressione del viso e da un lapsus ricavano tutto intero il profilo dell’assassino.
I protagonisti della crime story, i presunti assassini in attesa di giudizio, sono invece confinati nel loro mondo virtuale. Sembrano oggetti di peluche,  antropomorfi solo per il fatto che talvolta parlano, piangono e ridono. Sono fugaci immagini di repertorio. Esistono come le ombre nell’Ade. Li si chiama per nome, si affibbiano loro dei nomignoli, sono indicati per semplice iniziale, come se si trattasse di virus informatici, entità immateriali. Sono soltanto immagini mediali, muppets confidenzialmente trattati come il cane o il gatto che un ventriloquo fa parlare. Zimbelli da portare in giro con un filo. Marionette buffe e snodate. Enti virtuali, teleplasmi, avatar, personificazioni, robottini... si parla di loro come fossero i personaggi di un film, gli attori di una telenovela, i fumetti di un giornalino. Sono soltanto dei piani di bit, dei pixel sul televisore, immagini catodiche, semplici icone. Reali sul monitor, sulla foto di un giornale, poi si addormentano nel loro mondo virtuale per essere risvegliati a comando, come pupazzetti e burattini riesumati dalla scatola dei giochi quando si fanno recitare nel teatrino. Presunti assassini che vivono una vita vera, in prigione in attesa di giudizio, chiusi in casa per la vergogna? Magari disperati, tormentati… forse perfino innocenti? Arresti domiciliari, colpevoli mediali, imprigionati nel rettangolo del televisore, una vita effimera tra un tg e un carosello. Personaggi che popolano un mondo immateriale, che navigano sul doppino telefonico, compaiono e scompaiono come fantasmi telematici. Veri solo quando vengono inquadrati, quando riemergono dal magazzino della memoria Ram, quando fanno capolino nelle ultime notizie Ansa. Poi dopo lo spot vanno a nanna. Allora esistono solo nel linguaggio macchina, come enti surrogati, concettuali, ideali... nel sommario di una pagina Google o come argomento del forum dedicato.
Il format si fa interprete dell’immaginario che avanza, di quell’insostenibile leggerezza dei nostri sensi allargati, del nostro nuovo abito etereo e impalpabile: internauti, visionari, sognatori. Perfino il dolore diventa esangue, piano piano anche noi ci assottigliamo, scivoliamo in quel mondo psichedelico dove cominciamo a ricostruire il delitto come fossimo lì, in prima fila, spettatori in diretta. Si apre una finestra nella nostra mente, vediamo il proscenio nella penombra, avvertiamo presenze indistinte e il rumore di passi frettolosi, suoni lugubri e inquietanti. Suggestioni mediatiche o ricordi veri? Improvvisamente vediamo scintillare il coltello e... appare il sangue. E’ tutto così realistico! Non sembra un film, non si direbbe una sceneggiatura. Lo scenario ci è stato descritto talmente nel dettaglio che facciamo parte del frame. Siamo anche noi lì, insieme alla vittima, possiamo sfiorarla. Così vicini che vediamo la sua angoscia dipinta sul viso, sentiamo il respiro affannoso dell’assassino, lo vediamo che alza il braccio. Il suo volto... è un po’ in penombra, ma lo riconosciamo, sì, è proprio quello che ci è stato descritto, quello sul monitor con quell’aria sospetta, la sua foto digitale e il suo profilo caratteriale. Un ologramma in 3D prende corpo nella nostra mente, così realistico che per un attimo potremmo perfino pensare di essere in grado di fermare la mano assassina. Viaggiamo nel tempo come se avessimo assunto una sostanza psicoattiva, d’un balzo superiamo i nostri limiti spaziali. Il nostro è un corpo aumentato, immenso, senza confini. Vediamo ogni fase del delitto. L’immaginario diventa apparizione, un sogno ad occhi aperti, una ricostruzione del delitto con le scene numerate e formattate. Siamo testimoni e cronisti, ogni dettaglio ci è noto, abbiamo visto perfino il sangue zampillare, la vittima cadere, l’assassino che ripuliva, depistava, scappava, si nascondeva... possiamo descrivere tutto per filo e per segno, possiamo perfino giurarlo in tribunale. Il format ci rassicura, ci conferma, ci tiene botta.
La linea di confine della trasparenza psichedelica è quella frastagliata di un’onda sulla battigia, sempre diversa e sempre in divenire. Il flusso di bit, informazione inarrestabile... quel mare che si perde all’orizzonte e che evoca ricordi, una risacca di immagini dentro di noi. Conoscere è ricordare di essere stati lì, di essere parte del mondo ideale, il cielo delle sostanze eteree, punti luce sul monitor, ricordi che emergono nella nostra coscienza allargata. Siamo internauti che navigano oltre i limiti dello spazio e del tempo. Realtà aumentata. I confini dell’anima, la nostra anima, si dilatano col medium telematico. Diventiamo entità ubique, la nostra nuova facoltà di esser qui e altrove si accompagna a un delirio di onnipresenza. Il nostro corpo si espande. Si fonde in un io collettivo. Non siamo più io, ma noi, la nostra intelligenza e la nostra responsabilità si diluiscono nell’etere, siamo interconnessi in una rete modulare, processi di organizzazione automatica, per campionamento ed equilibrio omeostatico. Tecnologie wireless, collegamenti indotti attraverso armonie prestabilite, come le monadi leibniziane o come le particelle quantistiche. Non c’è neppure bisogno di avviare procedure di controllo e di coordinamento, tutto in automatico. Auto-organizzazione in fieri, processi con logiche fuzzy ed equazioni non lineari, modelli probabilistici e calcoli statistici. Non più semplici consumatori passivi ma co-attori, ri-produttori, co-ordinatori… collaboratori, punti nodali di una rete senza padroni e senza reggitori. Il fantasma dell’esperimento Milgram (la pedissequa obbedienza a un’autorità politica, sociale, sindacale, scientifica…) risulta perfino ingenuo nella sua vecchia formulazione. L’autorità alla quale obbediamo siamo noi, il nostro nuovo io collettivo e interconnesso che vive in quella nuova dimensione di appartenenza, di scambio e di condivisione. 
Siamo registi di noi stessi: cultura introiettata, forme mentis ereditate, la trama invisibile delle idee, delle forme sempiterne. Il grande web invisibile della storia millenaria... plasmati un po’ dalle favole raccolte negli scaffali delle biblioteche e un po’ dal nuovo mondo degli archivi elettronici. Immaginiamo il passato come se davvero fosse mai esistito quello che ci viene raccontato. Il format ci plasma fin dalla nascita (come dei Truman ante litteram), ci fornisce un bagaglio di idee, concetti, credenze, superstizioni, paure. La nostra mente non è tabula rasa per quanto quotidianamente ne spolveriamo la superficie. Siamo programmati, infiltrati, interconnessi con quei collegamenti wireless sempre attivi. Nasciamo già con un tubo catodico incorporato, con una linea Adsl già in funzione, riceviamo messaggi di posta elettronica perfino dalla tata. I bagagli delle idee sono pesanti come i libri cartacei anche quando sono immagazzinati in memorie usb, sono onerosi anche se hanno la leggerezza dei font elettronici, sono frame nei quali quotidianamente veniamo irretiti: il format della nostra cultura, delle nostre idee, di quella trasparenza psichedelica così allettante e così pervasiva.
La libertà è partecipazione diceva una canzone di Gaber, libertà non è star sopra un albero. Nell’epochè formulata dagli antichi scettici, si può ravvisare un tentativo di decondizionamento (per usare un termine carico di implicazioni ideologiche) proprio da arboricoli virtuali. La sospensione del giudizio sembra essere più uno stato della mente che un processo cognitivo, più un espediente di igiene mentale (atarassia) che un rivoluzionario metodo nella formulazione dei giudizi etici e teoretici. Nella pratica zen del vuoto interiore c’è un tentativo forse più radicale di spogliarsi dagli abiti mentali. La cavità ricolma di nulla è discontinuità, silenzio, ma non vuoto, l’essenza mentale dove pullulano infinite possibilità, proprio come quei pixel del monitor che si accendono e si spengono, come quei giardini di ghiaia bianca dove alcune pietre sembrano galleggiare e fluttuare. Qualcuno più semplicemente tenta la via del nudismo (simbologia di un corpo metafisico, senza la maschera del vestito, liberati da quell’abito esteriore che rappresenta i nostri status symbol, compresi piercing e tatuaggi). Gli stiliti, monaci cristiani anacoreti trascorrevano una vita di preghiera e penitenza in cima ad una colonna assistiti da confratelli che li rifornivano di acqua e di cibo. Posizione scomoda ma preminente. Altri hanno deciso davvero di vivere sopra un albero come il Barone Rampante di Italo Calvino e come tutti coloro, monaci ed eremiti, che hanno tentato l’isolamento dal frastuono del mondo. La clausura ha i suoi vantaggi, meditazione e solitudine, anche se sembra che alle monache sia stata alla fine concessa la navigazione sul web. Altri hanno fatto di necessità virtù, come Robinson Crusue in quell’immaginario dell’isola remota dove nessuno mai approderà, forse nemmeno un Venerdì per sbaglio. Ai giorni nostri con Google Maps si rischia di esser ritrovati prima ancora di avervi fatto naufragio. Si fanno esperimenti di deprivazione sensoriale con dei volontari che si calano in grotte ipogee per viverci senza orologio e senza contatti umani, solo con musica classica e comunicazioni via computer... o addirittura in completa assenza di stimoli. L’esperienza può ricordare il mito di Platone in uno strano e paradossale ribaltamento: tornare nella caverna dove le allucinazioni sono forse più vere di quell’infernale mondo mediatico nel quale abitiamo. Si stanno sperimentando le conseguenze di lunghi viaggi interplanetari sulla psiche degli astronauti con volontari speleonauti nella preoccupazione che i viaggiatori del cosmo, privati per lungo tempo dai ritmi circadiani, possano cadere in depressione e impazzire prima di arrivare a destinazione, come certi cavernauti che usciti da un lungo isolamento sono approdati in un delirio autistico e per riprendersi hanno dovuto passare anni dallo psicoanalista.

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