STORIE MEDIATICHE FATE ATTENZIONE
Nel processo mediatico, processo inteso come elaborazione di nuovi
format e programmi dedicati alla cronaca (in tutte le sue gradazioni
cromatiche, dal bianco fino al noir), si è andato affermando e
consolidando un nuovo modello interattivo che chiameremo: della trasparenza psichedelica. La trasparenza
richiama la correttezza e la genuinità di un approccio senza
infingimenti e senza opacità, una informazione senza reticenze e
censure, l’idealtipo del giornalista d’assalto e del cronista senza ‘se’ e senza ‘ma’. Il termine psichedelico allude
invece a una scansione filtrata attraverso effetti più o meno
deformanti (allucinazioni visive, tattili, emotive…), un reticolo
interpretativo capzioso e suggestivo che allarga la sfera del visibile
in regioni ignote, in realtà esotiche ed aliene. Il paradigma riguarda i
casi umani, soprattutto quelli irrisolti - Cold Case, delitti e
persone scomparse – passati al setaccio con l’intento di approfondirne
tutti i risvolti personali e criminali. I protagonisti delle storie
vengono riguardati e formattati in una sorta di acquario virtuale, con
diversi piani di ribaltamento, ruotati in 3D come proiezioni ortogonali,
in una assonometria che ne mostri i profili più o meno obliquamente
(inquadrature emotive e concettuali, angolazioni esistenziali, primi
piani psico-caratteriali). Persone tagliate a fette (virtualmente) per
farne la scansione, riflesse e ribaltate come si trattasse di poligoni
irregolari. Protagonisti in carne ed ossa trasformati in figurine senza
recto né verso, quasi astrazioni matematiche da prillare, ruotare e
ritagliare; in controluce come certi francobolli in filigrana. Fumetti e
cartoon che vivono la loro vita tra le strisce di qualche giornaletto o
buffe animazioni da conservare in cineteca per i momenti di svago
familiare. Uomini e donne concepite come personaggi posterizzati,
quadretti da appendere al muro, equalizzati come istogrammi. Persone
reali riguardate come reperti da etichettare, misurare e scannerizzare,
insetti da sezionare e spiaccicare, merce da pesare e impacchettare.
Casi disgraziatamente e drammaticamente umani, in tutte le varietà -
dolenti, appassionati, disperati... delittuosi - storie da collocare in
un incerto confine tra la cronaca e la fiction, ibridi di un mondo di
mezzo. Contaminazione di effetti speciali (realtà virtualmente
esistenti) e soggetti veri, in carne ed ossa (ombre inconsistenti che
vagano nell’etere): ciò che esce dall’inquadratura non esiste se non nel
mondo iperuranio, quello che vi appare è il reticolo psichedelico di
increspature, smottamenti, vortici, disturbi, mezzetinte... una gamma di
effetti speciali. Programmazione visuale, il format ha le sue regole, i
suoi tempi, e richiede di tradurre (platonicamente) l’idea nel prodotto
finito: trasformare le persone reali in figure assemblate, purificate e
interlacciate. Tutto il resto è mole, la realtà vera è un complesso
amorfo e indiscernibile dal quale ritagliare una maschera, un profilo
angolare, a smusso o in rilievo, quello che si è scelto in funzione del
target, degli indici di ascolto e della propensione dell’audience...
misurata e pesata con metodi rigorosamente quantitativi.
Il termine psichedelico (psychedelic), dalla parola greca anima, ψυχή (psiche), e manifestare, δήλος
(delos), fu utilizzato da Humphry Osmond (psichiatra inglese e studioso
di sostanze psicoattive) in una lettera ad Aldous Huxley (l’autore
famoso del Brave New World) riferendosi alle sostanze che "liberano il pensiero dalle sovrastrutture delle convenzioni sociali", che allargano la coscienza alterando pensieri, percezioni, sensazioni.... che mettono a nudo la psiche in controluce. Un outing non solo riguardante la sfera sessuale ma quella intima, un coming out
che trasforma una persona in un involucro trasparente con interiora ben
visibili. Ecografie con cuore battente in primo piano, radiografie
dell’anima, macellazioni in diretta. Il paradigma è vagamente
allucinogeno, anche se nessuna sostanza stupefacente è coinvolta, a
dimostrazione che le endorfine possono naturalmente produrre gli effetti
desiderati e scatenare nell’immaginario collettivo delle iconografie
non dissimili dalle apparizioni mariane. Il modello indica il
superamento dei confini corporei, il limite tangibile della privacy
(parola ormai abusata e distorta) il perimetro di ciò che intimamente ci
appartiene, non solo gli affetti e le emozioni, ma il tabernacolo
inviolabile della nostra anima. Il protagonista acquista la trasparenza
di certi pesci di vetro o di alcuni calamari di cristallo, nei quali la
pelle traslucida consente di osservare nei dettagli gli organi interni
in contrasto con una luce polarizzata. Gli osservatori dei mirabolanti
effetti luminescenti possono variamente esercitare la loro vista
stereoscopica e le loro stupefacenti capacità analitiche e
psico-analitiche, criminologiche e fenomenologiche, in dissertazioni
edificanti perfino con intento educativo. L’immaginario collettivo
lavora come i ragni baconiani a intessere tele, complicati arabeschi e
ardite filigrane scaturite da un immaginario fervido e operoso. Persone
con nome e cognome trasformate in ectoplasmi che vivono negli interstizi
della tv commerciale, tra uno spot sull’ultimo prodotto di bellezza e
una televendita promozionale. Vissuti dolorosi, esperienze inquietanti,
tragedie familiari... inseriti tra lo spot di un detersivo e
l’intervista al personaggio famoso; eventi delittuosi e sanguinari
nell’intermezzo di una benedizione urbi et orbi. Casi
conclamati come emblema del variegato paesaggio esistenziale, trattati
con il garbo e la sensibilità che un vivisezionista riserva alle sue
cavie, con mille precauzioni perché i protagonisti non abbiano ad
avvertire nemmeno un dolore o anche soltanto l’imbarazzo per l’autopsia
in diretta.
Ma il format è anche un processo di catarsi collettiva, un procedimento
di autoanalisi, un tragitto verso la luce, il cammino in direzione di
Santiago, un itinerario doloroso, irto di prove difficili, ma
necessarie. La via crucis di un percorso di ravvedimento, non solo del
presunto colpevole, ma di tutta l’audience folgorata sulla via di
Damasco, in un processo di progressiva consapevolezza, in una
purificazione collettiva. Anche il più atroce dei delitti ha un
insegnamento morale, ci riporta tutti ad alte considerazioni etiche e
teoretiche. Sono percorsi di illuminazione, penitenziali per interposta
persona. Psicodrammi talvolta conclusi con pianti liberatori, talora in
pentimenti perennemente irrisolti in stimmate dolorose, in confessioni
continuamente e inutilmente sollecitate. Processi in diretta con tanto
di avvocato e pubblico ministero. perfino con il sacerdote per i
doverosi conforti spirituali, e naturalmente il giudizio di un’audience
simbolicamente rappresentata da spettatori a far da comparsa: ipostasi
pallide, sconcertate e stupefatte, talvolta incazzate che invocano i
fulmini della giustizia divina, riesumano punizioni desuete, richiamano
in vita l’occhio per occhio dente per dente, perfino supplizi
inenarrabili. Un’audience che oscilla tra il perdono e il risentimento,
tra la pietà e la vendetta, ma sempre attenta e informata sugli ultimi
sviluppi dell’inchiesta, al corrente di ogni più piccola variante del
caso, sempre pronta a fiutare le tracce del colpevole, aggiornata sulle
ultime tecniche dei laboratori del Ris. Il conduttore è la guida
spirituale, lo sponsor che prende per mano il popolo mediatico, gli
mostra le tappe, ne descrive le fasi, suggerisce, indica, allude,
organizza... un canalizzatore instancabile, un promotore di scoop
settimanali. Gli inviati sul posto hanno il piglio da esploratori
dell’insondabile animo umano; un po’ ammutoliti e un po’ logorroici,
tratteggiano per l’audience un primo canovaccio, indiscrezioni e notizie
di prima mano, attorniati da una spontanea partecipazione di pellegrini
nel percorso di disvelamento (platea, un po’ di curiosi e un po’ di
testimonials dall’aria grave di circostanza). I tessitori operosi e
instancabili, gli ospiti in studio, sono invece latori e testimoni degli
abissi esistenziali, intrecciano e svelano l’arazzo dei misteri
dell’anima umana. Da pochi indizi, talvolta solo tracce scolorite, una
feconda immaginazione produttiva ricostruisce tutta la dinamica di un
delitto, da un’espressione del viso e da un lapsus ricavano tutto intero
il profilo dell’assassino.
I protagonisti della crime story, i presunti assassini in attesa di
giudizio, sono invece confinati nel loro mondo virtuale. Sembrano
oggetti di peluche, antropomorfi solo per il fatto che talvolta
parlano, piangono e ridono. Sono fugaci immagini di repertorio. Esistono
come le ombre nell’Ade. Li si chiama per nome, si affibbiano loro dei
nomignoli, sono indicati per semplice iniziale, come se si trattasse di
virus informatici, entità immateriali. Sono soltanto immagini mediali, muppets
confidenzialmente trattati come il cane o il gatto che un ventriloquo
fa parlare. Zimbelli da portare in giro con un filo. Marionette buffe e
snodate. Enti virtuali, teleplasmi, avatar, personificazioni,
robottini... si parla di loro come fossero i personaggi di un film, gli
attori di una telenovela, i fumetti di un giornalino. Sono soltanto dei
piani di bit, dei pixel sul televisore, immagini catodiche, semplici
icone. Reali sul monitor, sulla foto di un giornale, poi si addormentano
nel loro mondo virtuale per essere risvegliati a comando, come
pupazzetti e burattini riesumati dalla scatola dei giochi quando si
fanno recitare nel teatrino. Presunti assassini che vivono una vita
vera, in prigione in attesa di giudizio, chiusi in casa per la vergogna?
Magari disperati, tormentati… forse perfino innocenti? Arresti
domiciliari, colpevoli mediali, imprigionati nel rettangolo del
televisore, una vita effimera tra un tg e un carosello. Personaggi che
popolano un mondo immateriale, che navigano sul doppino telefonico,
compaiono e scompaiono come fantasmi telematici. Veri solo quando
vengono inquadrati, quando riemergono dal magazzino della memoria Ram,
quando fanno capolino nelle ultime notizie Ansa. Poi dopo lo spot vanno a
nanna. Allora esistono solo nel linguaggio macchina, come enti
surrogati, concettuali, ideali... nel sommario di una pagina Google o
come argomento del forum dedicato.
Il format si fa interprete dell’immaginario che avanza, di
quell’insostenibile leggerezza dei nostri sensi allargati, del nostro
nuovo abito etereo e impalpabile: internauti, visionari, sognatori.
Perfino il dolore diventa esangue, piano piano anche noi ci
assottigliamo, scivoliamo in quel mondo psichedelico dove cominciamo a
ricostruire il delitto come fossimo lì, in prima fila, spettatori in
diretta. Si apre una finestra nella nostra mente, vediamo il proscenio
nella penombra, avvertiamo presenze indistinte e il rumore di passi
frettolosi, suoni lugubri e inquietanti. Suggestioni mediatiche o
ricordi veri? Improvvisamente vediamo scintillare il coltello e...
appare il sangue. E’ tutto così realistico! Non sembra un film, non si
direbbe una sceneggiatura. Lo scenario ci è stato descritto talmente nel
dettaglio che facciamo parte del frame. Siamo anche noi lì,
insieme alla vittima, possiamo sfiorarla. Così vicini che vediamo la sua
angoscia dipinta sul viso, sentiamo il respiro affannoso
dell’assassino, lo vediamo che alza il braccio. Il suo volto... è un po’
in penombra, ma lo riconosciamo, sì, è proprio quello che ci è stato
descritto, quello sul monitor con quell’aria sospetta, la sua foto
digitale e il suo profilo caratteriale. Un ologramma in 3D prende corpo
nella nostra mente, così realistico che per un attimo potremmo perfino
pensare di essere in grado di fermare la mano assassina. Viaggiamo nel
tempo come se avessimo assunto una sostanza psicoattiva, d’un balzo
superiamo i nostri limiti spaziali. Il nostro è un corpo aumentato,
immenso, senza confini. Vediamo ogni fase del delitto. L’immaginario
diventa apparizione, un sogno ad occhi aperti, una ricostruzione del
delitto con le scene numerate e formattate. Siamo testimoni e cronisti,
ogni dettaglio ci è noto, abbiamo visto perfino il sangue zampillare, la
vittima cadere, l’assassino che ripuliva, depistava, scappava, si
nascondeva... possiamo descrivere tutto per filo e per segno, possiamo
perfino giurarlo in tribunale. Il format ci rassicura, ci conferma, ci
tiene botta.
La linea di confine della trasparenza psichedelica è quella frastagliata
di un’onda sulla battigia, sempre diversa e sempre in divenire. Il
flusso di bit, informazione inarrestabile... quel mare che si perde
all’orizzonte e che evoca ricordi, una risacca di immagini dentro di
noi. Conoscere è ricordare di essere stati lì, di essere parte del mondo
ideale, il cielo delle sostanze eteree, punti luce sul monitor, ricordi
che emergono nella nostra coscienza allargata. Siamo internauti che
navigano oltre i limiti dello spazio e del tempo. Realtà aumentata. I
confini dell’anima, la nostra anima, si dilatano col medium telematico.
Diventiamo entità ubique, la nostra nuova facoltà di esser qui e altrove si accompagna a un delirio di onnipresenza. Il nostro corpo si espande. Si fonde in un io collettivo. Non siamo più io, ma
noi, la nostra intelligenza e la nostra responsabilità si diluiscono
nell’etere, siamo interconnessi in una rete modulare, processi di
organizzazione automatica, per campionamento ed equilibrio omeostatico.
Tecnologie wireless, collegamenti indotti attraverso armonie
prestabilite, come le monadi leibniziane o come le particelle
quantistiche. Non c’è neppure bisogno di avviare procedure di controllo e
di coordinamento, tutto in automatico. Auto-organizzazione in fieri,
processi con logiche fuzzy ed equazioni non lineari, modelli
probabilistici e calcoli statistici. Non più semplici consumatori
passivi ma co-attori, ri-produttori, co-ordinatori…
collaboratori, punti nodali di una rete senza padroni e senza
reggitori. Il fantasma dell’esperimento Milgram (la pedissequa
obbedienza a un’autorità politica, sociale, sindacale, scientifica…)
risulta perfino ingenuo nella sua vecchia formulazione. L’autorità alla
quale obbediamo siamo noi, il nostro nuovo io collettivo e interconnesso che vive in quella nuova dimensione di appartenenza, di scambio e di condivisione.
Siamo registi di noi stessi: cultura introiettata, forme mentis
ereditate, la trama invisibile delle idee, delle forme sempiterne. Il
grande web invisibile della storia millenaria... plasmati un po’ dalle
favole raccolte negli scaffali delle biblioteche e un po’ dal nuovo
mondo degli archivi elettronici. Immaginiamo il passato come se davvero
fosse mai esistito quello che ci viene raccontato. Il format ci plasma
fin dalla nascita (come dei Truman ante litteram), ci fornisce un
bagaglio di idee, concetti, credenze, superstizioni, paure. La nostra
mente non è tabula rasa per quanto quotidianamente ne spolveriamo la
superficie. Siamo programmati, infiltrati, interconnessi con quei
collegamenti wireless sempre attivi. Nasciamo già con un tubo catodico
incorporato, con una linea Adsl già in funzione, riceviamo messaggi di
posta elettronica perfino dalla tata. I bagagli delle idee sono pesanti
come i libri cartacei anche quando sono immagazzinati in memorie usb,
sono onerosi anche se hanno la leggerezza dei font elettronici, sono frame
nei quali quotidianamente veniamo irretiti: il format della nostra
cultura, delle nostre idee, di quella trasparenza psichedelica così
allettante e così pervasiva.
La libertà è partecipazione diceva una canzone di Gaber, libertà non è star sopra un albero. Nell’epochè
formulata dagli antichi scettici, si può ravvisare un tentativo di
decondizionamento (per usare un termine carico di implicazioni
ideologiche) proprio da arboricoli virtuali. La sospensione del giudizio
sembra essere più uno stato della mente che un processo cognitivo, più
un espediente di igiene mentale (atarassia) che un rivoluzionario metodo
nella formulazione dei giudizi etici e teoretici. Nella pratica zen del
vuoto interiore c’è un tentativo forse più radicale di spogliarsi dagli
abiti mentali. La cavità ricolma di nulla è discontinuità, silenzio, ma
non vuoto, l’essenza mentale dove pullulano infinite possibilità,
proprio come quei pixel del monitor che si accendono e si spengono, come
quei giardini di ghiaia bianca dove alcune pietre sembrano galleggiare e
fluttuare. Qualcuno più semplicemente tenta la via del nudismo
(simbologia di un corpo metafisico, senza la maschera del vestito,
liberati da quell’abito esteriore che rappresenta i nostri status
symbol, compresi piercing e tatuaggi). Gli stiliti, monaci
cristiani anacoreti trascorrevano una vita di preghiera e penitenza in
cima ad una colonna assistiti da confratelli che li rifornivano di acqua
e di cibo. Posizione scomoda ma preminente. Altri hanno deciso davvero
di vivere sopra un albero come il Barone Rampante di Italo
Calvino e come tutti coloro, monaci ed eremiti, che hanno tentato
l’isolamento dal frastuono del mondo. La clausura ha i suoi vantaggi,
meditazione e solitudine, anche se sembra che alle monache sia stata
alla fine concessa la navigazione sul web. Altri hanno fatto di
necessità virtù, come Robinson Crusue in quell’immaginario dell’isola
remota dove nessuno mai approderà, forse nemmeno un Venerdì per sbaglio.
Ai giorni nostri con Google Maps si rischia di esser ritrovati prima
ancora di avervi fatto naufragio. Si fanno esperimenti di deprivazione
sensoriale con dei volontari che si calano in grotte ipogee per viverci
senza orologio e senza contatti umani, solo con musica classica e
comunicazioni via computer... o addirittura in completa assenza di
stimoli. L’esperienza può ricordare il mito di Platone in uno strano e
paradossale ribaltamento: tornare nella caverna dove le allucinazioni
sono forse più vere di quell’infernale mondo mediatico nel quale
abitiamo. Si stanno sperimentando le conseguenze di lunghi viaggi
interplanetari sulla psiche degli astronauti con volontari speleonauti
nella preoccupazione che i viaggiatori del cosmo, privati per lungo
tempo dai ritmi circadiani, possano cadere in depressione e impazzire
prima di arrivare a destinazione, come certi cavernauti che usciti da un
lungo isolamento sono approdati in un delirio autistico e per
riprendersi hanno dovuto passare anni dallo psicoanalista.
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