Gli orfani bianchi
Li chiamano “orfani bianchi”. Bianchi come la neve in inverno o come
il candore dei loro anni. Secondo un recente rapporto dell’Unicef, in
Moldavia sarebbero 100 mila: un esercito cui le autorità locali e le
istituzioni europee hanno voltato le spalle. Gli “orfani bianchi” sono
tutti i minori con uno o entrambi i genitori all’estero, emigrati in
cerca di un lavoro migliore. Nel piccolo paese stretto tra Romania e
Ucraina, 100 mila teenagers vivono senza almeno uno dei genitori (quasi
sempre la madre), 17 mila sono affidati ai nonni o ad altri congiunti.
Almeno 500 (ma il numero potrebbe essere molto maggiore) vivono
praticamente da soli. Su una popolazione di appena 3 milioni e 600 mila
abitanti tali numeri descrivono una profonda lacerazione del tessuto
sociale.
Questi bambini e questi adolescenti sono esposti a fortissime
tensioni psicologiche. L’assenza dei padri e soprattutto delle madri su
larga scala (un’intera generazione di emigrati; solo in Italia i moldavi
sono oltre 120mila) produce un gap difficilmente recuperabile. Poco
alla volta, la depressione inizia a corrodere gli “orfani bianchi”.
Il 2012 è stato l’anno in cui il “male oscuro” è venuto a galla. I
mass-media moldavi hanno sottolineato – spesso con toni
sensazionalistici – il netto aumento del numero di suicidi tra
adolescenti. Nel 2011 ci sono stati 18 suicidi tra i minori. Nei primi
sei mesi del 2012 il numero è schizzato a 16. In una sola settimana di
settembre, poi, nella sola capitale Chişinău tre ragazzini si sono tolti
la vita. Dall’inizio dell’anno i casi conosciuti (perché è difficile
estendere conteggio nelle province più estreme) sono 22. Tutti figli di
emigrati all’estero.
Secondo Liuba Ceban, presidente dell’associazione Altruism che ha
sollevato la questione, per comprendere l’allargarsi del numero dei
suicidi bisogna puntare l’attenzione sui flussi migratori, e sulla loro
marcata femminilizzazione. Gli “orfani bianchi” (in Moldavia, come in
Romania e in Ucraina) sono l’altra faccia della “sindrome italiana”,
quella singolare forma di depressione che colpisce le badanti straniere
impiegate in Italia, e che – su scala internazionale – ha preso ormai il
nome del paese più “badantizzato” del mondo.
I suicidi ci dicono che siamo di fronte a uno scontro feroce tra due
crisi strutturali, non solo economiche, l’una contro l’altra
contrapposta. Da una parte, c’è un paese – il nostro – che ha demandato
il lavoro domestico, e in particolare la cura degli anziani
non-autosufficienti, a donne straniere, quasi sempre di recente
immigrazione. (Secondo i dati forniti dall’Inps nell’ultimo Rapporto sul mercato del lavoro degli immigrati
del Ministero del Lavoro, i collaboratori domestici in Italia sono
893.351. L’88,6% sono donne, per la metà non-comunitarie. I primi tre
paesi di provenienza sono: Ucraina, Filippine, Moldavia.) Dall’altra, ci
sono alcuni paesi dell’Europa dell’Est, ai margini dell’Unione, in cui
altre famiglie si scindono per risolvere problemi che le nostre
famiglie, da sole, non sono più in grado di gestire. Ovviamente, la
molla di questo vettore che sposta decine di migliaia di donne ogni anno
da oriente verso occidente è il bisogno di lavoro. Ma le sue ricadute
sono sociali, e colpiscono parimenti le madri e i loro figli.
Il termine “sindrome italiana” è stato coniato nel 2005 da due
psichiatri ucraini, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, i quali avevano
notato che la depressione dilagante tra tante donne tornate in patria
dall’Italia, dove per anni avevano lavorato come badanti, spesso per 24
ore al giorno in condizioni di isolamento, poggiava le sue basi su una
frattura del tutto nuova. Quelle giovani madri, per anni unica fonte di
sostentamento del proprio nucleo famigliare rimasto nel paese d’origine,
ora facevano fatica a reinserirsi all’interno di quello stesso nucleo.
Il rapporto con i figli, molto spesso, si era deteriorato. L’estraneità
aveva prodotto alienazione, quest’ultima una nuova asfissiante
solitudine. E da qui il passo al crollo era stato breve.
Gli “orfani bianchi” sono figli della stessa frattura. Ecco il
caso-tipo, secondo Liuba Ceban: “Un bambino di dieci anni si ritrova a
essere il più anziano della famiglia. Si prende cura dei fratelli più
piccoli, mentre i genitori sono all’estero per lavoro. È sempre
introverso, non comunica a scuola, non ha molti amici. A un certo punto,
stanco di portare questo fardello, si impicca.”
Di casi così se ne contano parecchi, purtroppo, non solo in Moldavia.
A Iaşi, ad esempio, capitale della Moldavia romena (regione della
Romania) ci sono numeri simili. Su mille bambini in cura nel suo reparto
dell’ospedale psichiatrico Santa Maria – denuncia la psichiatra Mihaela
Ghircoias – oltre la metà ha almeno un genitore (quasi sempre la madre)
in Italia. Anche qui i casi di suicidio sono in aumento.
Una delle cause di tale deflagrazione è anche il collasso del mondo
post-sovietico, in particolare il crollo dei servizi sociali. Sempre
Liuba Ceban denuncia come sia difficile cogliere appieno l’entità del
fenomeno per l’assenza di una rete capillare di intervento su tutto il
territorio nazionale. Non solo: “bisogna anche considerare che la
psicologia non è stata molto praticata ai tempi dell’Urss. Ci sono
ancora un sacco di preconcetti: così le persone che soffrono spesso ci
mettono molto per arrivare a incontrare uno psicologo o uno psichiatra”.
Gli “orfani bianchi”, così come le badanti colpite dalla “sindrome italiana”, hanno innanzitutto bisogno di ricostruire forme minime di comunità. Come si ricompongono queste famiglie globali? “La soluzione non può essere solo quella del ritorno”
Gli “orfani bianchi”, così come le badanti colpite dalla “sindrome italiana”, hanno innanzitutto bisogno di ricostruire forme minime di comunità. Come si ricompongono queste famiglie globali? “La soluzione non può essere solo quella del ritorno”
fonte Immaginare blog
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