Ma chi è il
disabile?
Cerchiamo di fare delle precisazioni terminologiche.
Per
troppo tempo, della disabilità si è sottolineato l’aspetto organico. E’
prevalsa una concezione <<medicalizzata>> della disabilità, come un
complesso sintomatologico, esito di una affezione organica prenatale (è
il caso che si verifica ad esempio quando la madre prende la rosolia
durante la gravidanza), natale (ad esempio un trauma durante il parto) o
post natale (ad esempio un’infezione post-vaccinica). L’aspetto più
importante sarebbe quindi quello biologico; pertanto si focalizza
l’attenzione su qualcosa che va storto durante la gravidanza o quando il
bambino nasce, e che provoca un danno permanente. Ma accettando questa
definizione si rischia di confondere causa ed effetti.
Occorre
inoltre precisare che nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS)
ha pubblicato una prima Classificazione Internazionale delle
Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap (ICIDH).
Tale
classificazione distingueva rigorosamente i seguenti termini:
menomazione, disabilità, handicap.
La
menomazione è qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di
una funzione psicologica, fisiologica o anatomica. Il termine
menomazione è più comprensivo di disturbo, in quanto si estende
anche alle perdite anatomiche; ad esempio, la perdita di una mano non è
un disturbo ma una menomazione.
Essa è
caratterizzata da perdite o alterazioni provvisorie o permanenti e
comprende anomalie (la sindrome di Down è un’anomalia cromosomica, una
malformazione genetica), difetti o perdite a carico di arti, organi,
tessuti o altre strutture dell’organismo psichico e fisico. Si nasce
menomati, ma si può anche diventarlo in seguito a incidenti.
Il
concetto di disabilità è meno semplice da definire rispetto a
quello di menomazione. La disabilità è la conseguenza pratica della
menomazione e questo termine indica ciò che è in grado di fare e ciò che
non si riesce a fare: esso riguarda perciò la sfera delle attività.
Una
menomazione del linguaggio comporta una disabilità nel parlare. Una
menomazione dell’udito produce una disabilità nell’ascoltare. E’ così
per quanto riguarda le menomazioni della vista, che determinano una
disabilità nel vedere.
Una
menomazione psicologica (una schizofrenia, una psicosi, ecc.) causa una
disabilità nel vivere con gli altri.
L’handicap
è innanzitutto un fenomeno sociale: con questo termine si intende la
condizione di svantaggio, conseguente a una menomazione o a una
disabilità, che in un determinato soggetto limita o impedisce
l’adempimento di un ruolo sociale considerato <<normale>> in relazione
all’età, al sesso, al contesto socioculturale di appartenenza alla
persona.
L’handicap può essere interpretato come il risultato dell’incontro tra
la disabilità e l’ambiente fisico e sociale: tanto più è accogliente e
adatto a ogni individuo l’ambiente fisico e sociale, tanto minore sarà
l’handicap. Ad esempio, una piccola disabilità nel camminare diventa un
handicap grave su di un ripido sentiero di montagna, mentre è lieve in
una strada piana e non dissestata.
Un non
vedente al buio non manifesta un handicap: è in presenza della luce che
permette a tutti gli altri di vedere che la sua cecità diventa un
handicap.
E così
un ipovedente con una protesi che compensa bene il suo deficit è si un
menomato nell’udito, ma non necessariamente un handicappato.
In un
manicomio un matto è uno come gli altri. Nella realtà di tutti i giorni,
in cui tutti vivono seguendo delle regole che lui infrange, diventa <<il
matto>>.
Se anche
Ulisse avesse avuto un solo occhio, forse non se la sarebbe cavata così
a buon mercato con Pilifero.
La
stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, il 22 maggio 2002, ha
approvato una nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento,
della disabilità e della Salute denominata ICF: i tre termini
portanti della precedente versione (menomazione, disabilità, handicap)
sono stati sostituiti da: funzioni e strutture corporee, attività,
partecipazione.
Nel
primo ambito, concernente funzioni e strutture corporee, sono
raggruppate le classificazioni relative alle funzioni fisiologiche dei
sistemi corporei (incluse le funzioni psicologiche) e alle parti
anatomiche del corpo.
Nel
secondo ambito riguardante le attività sono raggruppate le
classificazioni relative all’esecuzione di un compito o di un’azione da
parte di un individuo.
Nel
terzo ambito riguardante la partecipazione sono raggruppate le
classificazioni relative ai livelli di coinvolgimento in situazioni di
vita concrete e normali.
Questa
nuova classificazione cerca di porre in primo piano le capacità del
singolo e le sue possibilità di partecipazione sociale.
Da una
parte si devono evidenziare le abilità di tutti gli individui – anche
diversamente abili -, dall’altra occorre guardare con più ottimismo
alla società.
Perché
la sua sfera sociale non è solo <<cattiva>>. Lo è anche quando non
riesce a capire la diversità, quando pensa solo ai normali e non si cura
dei più deboli, di chi ha bisogno di attenzioni particolari. Lo è quando
invece prendersi cura del matto, lo fa diventare lo zimbello di tutti,
lo stigmatizza come lo <<scemo del villaggio>>.
Ma
l’ambiente sociale, per fortuna, non è solo questo. Ambiente sociale è
quello da cui provengono le protesi per il disabile, è quello che
produce la carrozzina che permette all’invalido di spostarsi, ambiente
sociale è quello di chi emana le leggi che tutelano i diritti delle
persone disabili.
Per
fortuna non esiste un <<pianeta handicap>> . Le persone disabili vivono
tra noi e noi traiamo benefici dalla loro presenza, proprio come loro
traggono vantaggi dal vivere insieme in un mondo di uguali e diversi.
Perciò la disabilità,
che ha una connotazione soprattutto sociale e culturale, si evolve
seguendo l’evoluzione sociale e culturale.
Una non
vedente in topless non fa scandalo esattamente come una bagnante
vedente. Fu Brigitte Bardot a inventare la moda del topless. Allora fece
scandalo. Lo avrebbe fatto anche se non vedente. E così è necessario non
confondere menomazione e handicap un uomo con la faccia di elefante
(ricordate il film The elefant man?), in grado di vivere una vita
normale sul piano biologico, non è un disabile ma è sicuramente una
persona che vive un handicap: la società degli uomini <<normali>> ha
difficoltà a rapportarsi a una proboscide che parla. La <<regola>>
prevalente è che si deve parlare con la bocca. Il ventriloquo fa
spettacolo, nell spettacolo la finzione è la regola.
Definire
un individuo sulla base della menomazione (o della sua disabilità)
implica il rischio di effettuare una stigmatizzazione (e di produrre
handicap).
La
condizione di handicap è tale in rapporto all’atteggiamento di altre
persone in un determinato periodo storico.
Se non
possiamo intervenire sull’aspetto della menomazione, possiamo invece
fare molto nei confronti dell’ambiente fisico e sociale: possiamo
eliminare tutti gli ostacoli fisici, le barriere architettoniche ( c’è
lo scivolo nella tua scuola? Sai usare lo <<scoiattolo>>?), possiamo
intervenire traducendo in segnali sonori quelli visivi (si pensi alla
scritta sul semaforo avanti sostituita o accompagnata da un
segnale sonoro di via libera, ecc.), possiamo intervenire
sull’ambiente sociale sensibilizzando società e individui sulla
necessità di agevolare il processo d’integrazione (dal semplice non
posteggiare le auto sul marciapiedi, alla ricerca di sempre più
importanti sussidi tiflologici, ecc.). E’ soprattutto l’ambiente
socioculturale che fa l’handicap. Rifiutando. Emarginando. Isolando. Non
dedicando cure e tempo. Non considerando i portatori di disabilità come
interlocutori.
Vygotskij sostiene che i comportamenti mentali inferiori vengono a poco
a poco trasformati in comportamenti mentali superiori attraverso
l’interazione sociale.
Cosa ha
di diverso la persona disabile per sfuggire all’applicazione di questa
regola? Vivere con gli altri significa interagire: un ciao, una carezza,
delle attenzioni particolari, ecc.
Per
capire questo non conviene certo scomodare gli psicologi e non è
necessario farlo neppure per rispondere alla domanda <<Chi è la persona
disabile?>>.
La
persona disabile è un individuo. Con una propria identità. Con una
propria connotazione. Con delle caratteristiche proprie.
Lui ha
sempre saputo non solo di essere portatore di una disabilità, ma anche
di essere innanzitutto una persona. E’ ora che lo impariamo anche noi.
Effettuare precisazioni terminologiche è fondamentale: <<il Down>> (non
chiamarlo <<mongoloide>>, per favore e nemmeno <<mongolino>>) non è una
persona, ma una categoria e così come nella categoria <<persone>>
vengono compresi gli individui dalle caratteristiche più disparate, nel
caso di chi è affetto dalla sindrome della trisomia 21 (è sempre il
Down). C’è differenza tra un caso ed l’altro, tra un individuo con
sindrome Down e, in riferimento allo stesso individuo, tra un periodo
della sua esistenza e un altro.
Perciò
l’interrogativo su chi sia la persona disabile impone una risposta
diversa rispetto a quella concernente <<il deficiente>>, <<il pazzo>>,
<<l’autistico>>, <<il motuleso>>, <<il Down>>, <<lo schizofrenico>>.
Ripetiamo: è il fattore sociale che trasforma la disabilità in handicap.
E quando si dice aspetto sociale questo significa non solo indicare il
fattore umano, le persone, i ruoli, le funzioni, ma anche i prodotti
sociali: e così una scala con alti gradini è ambiente fisico ma anche
sociale, mentre una ripida salita in montagna può essere un aspetto
fisico di un paesaggio che la natura ha creato così, ma sul quale l’uomo
può intervenire. E se invece di intervenire con il cemento e le villette
a schiera, l’uomo intervenisse per creare dei percorsi facilitati
accessibili anche chi ha difficoltà nel camminare? Anche questa è una
scelta. C’è il trekking pensato solo per i robusti scalatori che
confrontano il loro fisico possente con la montagna. Ma c’è chi è
costretto a confrontarsi quotidianamente con se stesso. Perché l’uomo
scala le montagne? Per superare i propri limiti. Credi che per la
persona disabile sia diverso? Pensi che accetti volentieri i propri
limiti? Una scuola costruita con barriere architettoniche, con i servizi
igienici inadeguati, con ostacoli fisici crea handicap.
Un
gruppo di scienziati che asserisce senza prove scientifiche che
l’autismo è frutto di madri poco affettuose, di <<madri frigorifero>>
(quelle madri in carriera che non darebbero il giusto affetto ai figli
perché troppo impegnate nella corsa al successo), contribuisce a creare
l’handicap, con la falsità o la leggerezza superficiale della cosiddetta
<<ricerca scientifica>>. Sul versante opposto, la creazione di un
apparato telematico e informatico che permette di <<scannerizzare>> in
rilievo ciò che si vuole stampare da Internet contribuisce a
diminuire la disabilità e l’handicap.
Prendiamo le lenti per i miopi. E’ un dato oggettivo che la riduzione
del visus, specie se grave, costituisce una minorazione visiva.
La
società, inventando lenti sempre più perfezionate, riduce la
disabilità e l’handicap.
E così
accade a proposito delle protesi in genere. Ne esistono per tutti o
quasi i deficit di tipo non psichico.
Per i
non udenti esistono protesi acustiche di dimensioni ridottissime e
sofisticate. Ma in linea di massima, la protesi è costituita da un
microfono che trasforma le onde sonore in segnali elettrici, da un
amplificatore che amplifica tali segnali e, eventualmente, li modifica
adattandoli alle esigenze particolari del soggetto e da un riproduttore
che riconverte i segnali elettrici in onde sonore. Vi sono poi dei
comandi applicati all’amplificatore che consentono di regolare il
volume, il tono e altre componenti sonore.
In
seguito all’approvazione dell’ICF nel 2002, il termine <<handicap>> è
stato accantonato ed è stato sostituito dalla locuzione <<persona che
sperimenta difficoltà nella partecipazione sociale>>. Non portatore di
difficoltà, ma portatore di sogni, di speranze, di una certa capacità di
comprendere, di attitudine per alcuni giochi, di simpatia, di sorrisi,
di affetto e di occhi azzurri o castani, portatore di una difficoltà
spesso invalidante.
E qui
c’è già un’indicazione metodologica: non puoi partire dal negativo,
poiché se fai questo, non potrai che lavorare sul vuoto: non si lavora
su un materiale che non c’è. Occorre partire dal positivo facendo leva
su ciò che c’è, enfatizzando le aree di efficienza. E’ necessario
focalizzare l’attenzione sui seguenti interrogativi: possiede buone
capacità tattili, olfattive, linguistiche ecc.? Come faccio a sfruttare
questi aspetti positivi per ridurre le conseguenze della sua cecità?
Come faccio a ridurre le conseguenze della sua sordità?
Non puoi
chiedere a uno che non ha pane di dividerlo con te. Sei tu che puoi
dividere il tuo con chi ne ha bisogno. E allora al cieco toglierai gli
ostacoli che gli impediscono di muoversi e di correre, con il non udente
eviterai di parlare alle sue spalle, ma ti metterai davanti a lui in
modo che possa vedere bene le tue labbra. E via, fallo questo
sacrificio: tagliati i baffi! Vedrà meglio i movimenti delle tue labbra
e sarà come accendere una luce.
La
menomazione del soggetto completamento privo di vista è facilmente
riproducibile: basta che tu gli chiuda gli occhi e sarai non vedente. Ma
tu, se decidi di chiudere gli occhi di fronte a una vetrina, non potrai
mai essere esattamente come un non vedente: chi vede infatti ricorda gli
oggetti della vetrina, sa come è fatto un percorso per pedoni, come sono
fatti un piatto, un bicchiere, la tastiera di un computer , ecc.
Chi
nasce privo della vista, invece, deve inventarsi il mondo.
Deve
inventarsi il suo paesaggio in una dimensione in cui non c’è differenza
tra un’alba e un tramonto, tra una pianura piatta e delle montagne che
si ergono imponenti a spezzare l’orizzonte.
Non
credere che abbia un sesto senso in grado di preservarlo dai pericoli,
anche se ha dovuto sviluppare al massimo tutti gli altri sensi: la
percezione tattile è sicuramente migliore rispetto alla norma, la sua
mappa mentale, se ben costruita, può essere compatibile con la mappa del
mondo reale, ma a volte ha bisogno di aiuto.
I <<non
vedenti>> sono persone uguali alle altre. Non passare loro accanto senza
farti notare solo perché non vuoi disturbarli: dì loro che stai
passando, fai sentire la tua presenza, descrivi le azioni che stai
compiendo, parla, fatti sentire: il <<disturbo>> sarà sempre meglio
della solitudine e dell’abbandono.
Problemi
simili ha il <<non udente>>. La sordità è una menomazione invisibile
anche perché il non udente, come tutti i disabili stufi di essere messi
in vetrina, tende a nascondere la propria menomazione: può approvare con
un cenno del capo, pur non avendo compreso quasi nulla di tutto ciò che
si è detto. Per questo evita la gente. Per questo spesso evita la gente.
Per questo sceglie la solitudine. Una persona con disabilità mentale si
presenta palesemente come tale, una persona con epilessia è difficile da
riconoscere se non è nella fase di crisi. Perciò in seguito parleremo
delle disabilità più comuni, anzi dei portatori di disabilità
specifiche, non tanto per differenziarli o classificarli (dai più gravi
ai meno gravi), quanto per suggerire dei comportamenti che tu puoi
mettere in atto per assisterli meglio e per aiutarli, senza la
compassione e la carità pelosa che spesso tendiamo a manifestare.
Il
problema dell’integrazione non è di pertinenza esclusiva dell’insegnante
di sostegno: esso riguarda la scuola nel suo complesso, compresi i
componenti del personale amministrativo, tecnico, ausiliario. Quell’insegnante
che vedi spesso con un bambino che urla o che fa i capricci, o che si
muove in carrozzina, o che passa tanto tempo seduto o sdraiato su di un
tappeto, è un insegnante come gli altri, anzi con una marcia in più: è
un insegnate specializzato. Come un medico specializzato in una branca
della medicina. Di solito, lo si chiama insegnante di sostegno. Ma
sostegno a chi? E che significa sostegno? Questo insegnante ha un
compito difficile: quello di far diventare quella scuola, sì, proprio
quella scuola in cui lavori da tempo, una scuola in cui si realizza
effettivamente l’integrazione, una scuola in grado di dare risposte
adeguate ai bisogni di istruzione e di educazione di tutti gli alunni,
disabili compresi.
E’
possibile?
Oggi in
tutti i programmi di ogni ordine di scuola è presente una finalità
ineludibile: formare l’uomo e il cittadino. La vita è
cambiamento, perciò la scuola, oltre a insegnare materie e la buona
educazione – quanti ragazzi né dimostrano così poca nei tuoi confronti!
-, deve preparare i ragazzi ad affrontare i cambiamenti presenti e
futuri.
Nella
scuola è implicita l’idea di progresso: se si esce da essa nelle stesse
condizioni in cui si è entrati, la scuola ha fallito. Se l’alunno esce
dimostrando di avere acquisito maggiori capacità critiche che lo mettano
in condizioni di pensare, di sapere, di saper fare, di saper essere, non
sarà una comparsa sul palcoscenico della vita, ma un attore vero, forse
anche – perché no? – un protagonista.
Quante
volte ti sarà capitato di dire: <<Quel professore, quel professore sì
che li fa filare!>>. Ti sei mai chiesto come quel professore li
facesse filare? Approveresti se venissi a sapere che quel docente usa
sempre maniere forti e non sorride mai, facendo diventare le sue ore di
lezione un serie di brutti, interminabili quarti d’ora? Gli affideresti
serenamente tuo figlio, sapendo che vivrebbe la scuola come una
condanna? Certo i ragazzi imparano, ma se imparassero a suon di sberle
il prodotto potrebbe anche essere meritevole, ma il processo,
i mezzi impiegati sarebbero inaccettabili. Tu sai che un ragazzo
maltrattato sin dall’infanzia e nei cui confronti i genitori sono
maneschi, da grande molto probabilmente diventerà come i genitori e
maltratterà i propri figli, in un circolo vizioso e perverso di violenza
che si ripete inesorabilmente.
E che
c’entra questo con l’integrazione degli alunni disabili?
Oggi
l’integrazione, così come lo star bene a scuola (il che non significa
disubbidire, rompere le finestre, fare casino, non rispettare le
regole), è un valore per tutti.
Nella
repubblica di Platone, i valori venivano stabiliti dai filosofi. Per i
guerrieri la guerra. Per gli iloti, il popolino poco più che schiavo dei
potenti, il lavoro che doveva farli sudare per sé e per gli altri.
La
democrazia impone che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione
di sesso e di condizione economica, umana e sociale.
Ti hanno
insegnato che democrazia significa governo della maggioranza. Falso. La
maggioranza sa farsi rispettare da sola solo per il fatto di essere
maggioranza. La democrazia è altro. E’ rispetto della minoranza.
E la scuola democratica ne è la conseguenza.
La
scuola – dicevano i ragazzi di una scuola sperduta in un paese di
montagna – non può essere un ospedale che cura i sani e manda via i
malati. Chi ha più bisogno di cure, attenzioni e aiuto? Sicuramente chi
possiede di meno rispetto agli altri. Non ha bisogno
dell’otorinolaringoiatra chi sente bene, ma solo chi sente male.
Tu dici
che la scuola dovrebbe riservare a tutti lo stesso trattamento: chi
arriva arriva e chi resta indietro se l’è voluta. Sei sicuro? Ricordi
tua madre? Trattava tutti i figli allo stesso modo ma, quand qualcuno si
ammalava, gli riservava un ovetto in più e non risparmiava le carezze. E
tua madre era giusta.




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