Femminicidio: quando non basta un reato
E se l'introduzione del reato di femminicidio si riducesse a un mero slogan?
A cosa serve aggiungere l'aggravante di violenza di genere, se non si tutelano le donne prima che vengano uccise?
Proviamo a guardare questa delicata e complessa tematica da un altro punto di vista.
A cosa serve aggiungere l'aggravante di violenza di genere, se non si tutelano le donne prima che vengano uccise?
Proviamo a guardare questa delicata e complessa tematica da un altro punto di vista.
Negli ultimi mesi la parola femminicidio
con relativo hashtag e relative discussioni online e sui social
network, ha lasciato il solo web per approdare sui mass media. Carta
stampata e tv ne hanno fatto immediatamente uno slogan, una parola in cui racchiudere anni di lotte, vittorie, paure.
Ma il termine femminicidio non nasce certo oggi, già studiosi e
criminologi lo avevano utilizzato nel secolo scorso per indicare una
violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna,
come risultato di pratiche misogine talvolta reiterate, giustificate, non perseguite.
L’escalation di omicidi e di violenze sulle donne nell’ultimo anno
ha dato il via all’allarme mediatico. Si muore sempre più per mano di
mariti, ex mariti, fidanzati ed ex fidanzati, nonostante sia stato
istituito il reato di stalking già dal 2009.
Ma l’omicidio di una “femmina” in quanto femmina è generalmente
soltanto la fase finale derivante da violenze fisiche e/o psicologiche
che speso tormentano le vite di tante donne. La violenza e l’assassinio di genere sono l’apoteosi di mentalità pervase da machismo e maschilismo, che difficilmente possono essere curate con un banale aumento di pena. Sarebbe opportuno aiutare le donne quando sono ancora vive.
Pensare di aggiungere un’aggravante di reato includendo la violenza
di genere, rischia soltanto di ghettizzare ulteriormente le donne che
lottano per aver riconosciuti uguali diritti in Italia, in Europa in
Occidente, come nel resto del mondo. O come faceva notare in questo articolo l’autrice del blog, di confondere omicidi “normali” con omicidi di genere, anche quando non lo sono.
Quello che sarebbe opportuno fare è creare una rete di protezione
e supporto per le donne che subiscono violenza e maltrattamenti.
Inasprire le pene per reati come violenza sessuale, molestie,
maltrattamenti, minacce. Applicare concretamente e con tempestività le
misure cautelative e le pene previste per il reato di stalking che racchiude in sé vari tipi di minacce, intimidazioni e atteggiamenti persecutori.
Flash mob, manifestazioni e spot sono utili ad alimentare il
dibattito e ad estenderne la portata, ma non bastano. Un Paese che si
dice civile, progressista e democratico, come l’Italia, ha bisogno di
competenze, di persone giuste al posto giusto.
Un esempio. Qualche giorno fa, in occasione dell’8 marzo,
mi è capitato di leggere una lettera di una mia conoscente su Facebook
che ha voluto denunciare apertamente la sua situazione di violenza
ripetuta da parte del marito. La cosa che più mi ha colpito e lasciato
senza parole del suo racconto, è stata la risposta di un carabiniere cui
si era rivolta per sporgere denuncia:
Quando fui nell'ufficio denuncie e spiegai al maresciallo di turno cosa fosse accaduto, con il referto medico in mano, lui “fortunatamente" dall'alto della sua esperienza e con fare paterno , mi fece rinvenire dicendomi: ." Signo' .. queste sono cose che succedono.. vuje mo' fate sta' denuncia .. che nn serve a niente... c'avete due bambini piccoli, non lavorate, quello mo' vostro marito s'incazza ancora di piu' e succede un casino. I panni sporchi si lavano in casa... vedete che tutto si aggiusta!"
Trovare persone di questo tipo, quando si va a fare una
denuncia per stalking o per maltrattamenti, non aiuta. All’interno delle
questure evidentemente non c’è una seria preparazione riguardo vicende
così delicate, e quindi il tutto è un po’ a fortuna: tanto può capitarti
una persona che prende a cuore la situazione e ti spinge a reagire e a
chiedere giustizia come è giusto che sia, utilizzando tutte le armi a
disposizione, tanto si può trovare una persona sfaticata o sfiduciata
che preferisce chiudere la pratica ancor prima di iniziarla, nemmeno si
stesse denunciando il furto di un portafogli o di braccialetto.
Ma non finisce qui. La rete di protezione dovrebbe partire nel
momento preciso in cui viene fatta una denuncia per stalking (ma non
sempre, purtroppo, evidentemente, accade). Forze dell’ordine, servizi
sociali e centri di ascolto antiviolenza dovrebbero
mettere assieme le proprie forze e le proprie competenze. Di questi
ultimi se ne è parlato egregiamente in una delle recenti puntate del
programma Rai Presa Diretta,
in cui si è proprio sottolineato il difficile lavoro che tante figure
professionali esperte si trovano ad affrontare ogni giorno, aiutando
migliaia di donne e bambini, spesso nell’abbandono più totale da parte
delle istituzioni. La mancanza di fondi, infatti, rischia di far
chiudere molti centri (non solo di ascolto ma anche quelli di
accoglienza dotati di posti letto). Altro dato importante è la mancanza
di un numero sufficiente di centri in alcune regioni d’Italia,
come Calabria, Basilicata e Molise, dove talvolta le donne che hanno
bisogno di aiuto, non riescono a raggiungere con facilità i centri che
si trovano dall’altra parte della regione.
Dal servizio si evince inoltre la lentezza dei tempi giudiziari
e la mancanza di misure cautelative valide per le donne che hanno
sporto denuncia: in alcuni casi molte delle donne uccise in questa
strage senza fine, avevano denunciato, anche più di una volta, vari tipi
di minacce e maltrattamenti, senza che a queste denunce seguissero
azioni concrete atte a proteggerle.
È da qui che nasce la mia perplessità: non vorrei che il “femminicidio” si riducesse a mero slogan,
così come è stato a suo tempo per lo “stalking”. Le leggi sono
importanti nel momento in cui è fatto ogni sforzo possibile per farle
rispettare, mettendo a disposizione mezzi e risorse, altrimenti è pura
propaganda.
Ma le leggi, anche quando applicate alla lettera, da sole non bastano. Bisogna partire dall’educazione e dalla rieducazione.
Bisogna uscire dalla mentalità vittima-carnefice e riprendere il
dialogo tra generi, capire l’importanza dell’uguaglianza tra uomo e
donna nel rispetto delle differenze biologiche
Come facevo notare in un articolo che ho scritto in occasione della Giornata internazione contro la violenza sulle donne: “…le
donne che oggi vogliono essere diverse, minacciano la morale comune e
sconvolgono modelli precostituiti, mettendo in crisi un intero
sistema. Questo fa paura, fa paura a tutti. Non solo agli uomini. Se
l’uomo picchia e ammazza per riaffermare il suo potere, che lentamente
si sta erodendo, lo fa per paura, una paura che lo porta a sopraffare
l’altro. Bisogna andare a fondo, e capire dove nasce questa paura.
Perché si ha paura di un modello di donna che forse è cambiato, e non lo
si vuole accettare”.
Accettare che la donna abbia nuovi ruoli, nuove
possibilità d’espressione e stili di vita non è semplice per l’uomo di
oggi. I vecchi modelli sono in crisi già da qualche decennio e questo ha
portato a uno sconvolgimento all’interno dei nuclei familiari e
affettivi. Oggi le donne scelgono con più facilità la propria vita e la
propria condotta, e non tutti gli uomini, ma nemmeno tutte le donne,
sono pronti ad accettare ciò.
Ho parlato, sempre nello steso articolo, di “un altro tipo di
violenza, quella che le donne fanno alle altre donne. La violenza
psicologica di chi impone schemi in cui rientrare per essere “donna”,
prescrive “buona maniere”, stili di vita, ruoli. La violenza di chi ti
dice cosa è giusto dire, fare, e come farlo. Di chi vuole che si rimanga
uguali a se stesse, perché è più comodo così. Una società in cui sono
le donne a giudicare le donne, a renderle deboli e vulnerabili quando
non rientrano nel concetto di “donna” che tutta la società si aspetta.”
Questo succede anche quando le madri, le zie, le nonne, le cognate o le sorelle, ti invitano a sopportare maltrattamenti per preservare la famiglia o la relazione, per “difendere i figli”, l’immagine, il “nome”.
Eppure siamo noi donne, noi future mamme, insieme ai futuri padri, ad avere una grande responsabilità: insegnare ai nostri figli, ancora una volta, il rispetto per le donne,
unito alla consapevolezza che rispettare le donne (di qualunque età,
nazionalità, etnia, religione) non sia segno di debolezza, ma una grande
qualità, un grande pregio.
Con l’augurio che un giorno questo pregio diventi normalita
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